Milano. A quasi mezzo secolo dalla pubblicazione di Liberazione animale (1975), il saggio diventato manifesto dell’antispecismo (movimento che si oppone all’idea che la specie umana sia superiore alle altre, ndr) e quindi delle battaglie degli animalisti, Peter Singer fa il punto su cosa è cambiato da allora. Lo incontriamo a Milano, ospite dell’Università Statale, dove il filosofo ha presentato Nuova liberazione animale (Il Saggiatore), in una versione aggiornata con la prefazione di Yuval Noah Harari. Australiano, 78 anni, Singer è professore di bioetica al Centre for Human Bioethics di Princeton, e il suo lavoro è assai ampio: opere come Etica pratica del 1989, One World. L’etica della globalizzazione del 2003 e Salvare una vita si può. Agire ora per cancellare la povertà del 2009 gli sono valse nel 2021 il Berggruen Prize, considerato il Nobel per la filosofia.
E allora, professore, cosa è cambiato in questi cinquant’anni?
“Tante cose. Soprattutto perché oggi c’è molta più informazione. Negli anni 70 la gente non sapeva neanche che cosa esattamente significasse la parola “vegano”, mentre ora è consapevole che c’è un’alternativa al mangiare carne e all’evitare sofferenze a esseri viventi che provano dolore come noi. E poi si sono diffuse molte informazioni anche sugli allevamenti intensivi, e ora in tanti si preoccupano non soltanto per come vengono trattati gli animali, ma anche per le conseguenze che questo tipo di industria può avere sull’ambiente e sulla nostra salute. Tuttavia, nonostante questa acquisita consapevolezza, i progressi per eliminare queste fabbriche del dolore sono minimi. La maggior parte delle persone pensa che siccome la situazione è irreversibile, non ci sia nulla da fare. In questo senso credo sia necessario dare nuovo vigore al movimento per i diritti degli animali: solo lavorando insieme si possono cambiare le cose”.
Il suo pensiero su questi temi si dipana sempre dalla considerazione che polli e maiali non sono diversi dagli animali da compagnia, che pur amiamo tanto. E neppure dai tori...
“Se si è stati capaci di superare tradizioni culturali radicate come le corride, nel nome dello stop alla crudeltà, allora il dolore deve essere risparmiato a tutte le specie: un animale d’affezione non è diverso da uno selvatico o da un pesce. Coloro che scelgono di mangiare soltanto pesce, per dire, non fanno a mio parere una scelta eticamente più accettabile”.
Forse un primo passo potrebbe essere quello di mangiare carne che non venga da allevamenti intensivi, da animali che non abbiano affrontato lunghi viaggi stipati in camion e abbiano potuto stare all’aperto. Non crede?
“La legislazione europea sta andando in questa direzione, ma in Paesi come gli Usa soltanto le mobilitazioni dei cittadini hanno ottenuto qualcosa e solo in alcuni Stati. Per questo ribadisco che anche le scelte individuali contano”.
Ci tolga una curiosità: li difende da una vita, ma a lei, personalmente, gli animali piacciono?
“In verità non particolarmente, non ho mai avuto un cane o un gatto e non sono tra quelli che si incantano a guardare un documentario sui leoni o gli elefanti nella savana. Quella nei confronti degli animali non è per me una questione di sentimenti ed emozioni. Si tratta di considerare con lucidità le torture che infliggiamo loro e di chiederci se dobbiamo prendere in considerazione la loro sofferenza. La mia convinzione è che qualsiasi essere vivente conta e che la sofferenza non è mai accettabile. Così come non si può restare indifferenti alla povertà che costringe milioni di persone in condizioni di estrema difficoltà. Ultimamente ho lavorato molto anche sui fondamenti etici del suicidio assistito e va detto che in questo campo, almeno in alcuni Paesi, sono stati fatti notevoli progressi. Non altrettanto è accaduto per la povertà né per le sofferenze animali”.
Vede quindi con favore anche le proteste degli animalisti più estremi, che invocano la chiusura di tutti gli allevamenti intensivi?
“Di certo non è pensabile lasciare liberi da un giorno all’altro centinaia di migliaia di bovini, di maiali, o di polli. Abbiamo visto in passato quali danni all’ambiente hanno causato gli animali da pelliccia reimmessi in natura senza criteri. Quello che immagino è un processo graduale, per il quale ciascuno di noi può subito dare un segnale”.
Anche diventare tutti vegetariani mi pare improbabile, anche se forse sarebbe una soluzione a molti problemi, no?
“Le scelte alimentari sono il nodo per la liberazione animale: ricordiamo che secondo la Fao ogni anno uccidiamo per cibarcene oltre duecento miliardi di animali. E quindi è un bene che negli ultimi anni in molti abbiano cambiato le loro abitudini alimentari – anche perché giustamente preoccupati per la crisi climatica. Consideriamo che, sempre secondo le stime Fao, la produzione di mangimi e foraggio per gli animali da carne riduce la quantità di cibo disponibile per noi umani, aumenta le emissioni di gas serra e i rischi di pandemie. Insomma, per allevare animali, che soffrono, causiamo sofferenze a noi stessi e al Pianeta”.