Il suo ambito di interesse è assai ampio. Come si definirebbe? Come è finita a scrivere un libro dal titolo così ambizioso?
“Sono una freelance che collabora con varie testate, quali National Geographic, The New York Times, The Atlantic. Ora vivo in Oregon, ma sono cresciuta a Seattle, una città circondata da una natura meravigliosa, per cui ho sviluppato fin da piccola un interesse per gli animali e l’ambiente in generale. Il libro nasce da una curiosità crescente per gli animali come individui, più che per la biodiversità in generale”.
Partiamo proprio dal titolo e da un concetto centrale del libro: wild souls e wilderness sono concetti di difficile traduzione in italiano. Cosa intende per “anime selvagge” e “natura selvaggia”?
“Ho scelto il titolo con qualche trepidazione, perché non sono religiosa e temevo che soul, anima, venisse interpretato in senso religioso. Per me l’anima è però una sorta di attributo del corpo, che gli dà status e peso morale, un’identità come persona e individuo. Volevo sottolineare che anche gli animali hanno questa indescrivibile individualità, non sono solo robot che mangiano, dormono e si riproducono e che quindi non possiamo gestirli soltanto come insieme, come popolazione indistinta. E poi sì, c’è una certa religiosità, nel senso che molti tra noi che si occupano di ambiente hanno sentimenti che sono più forti di un semplice atteggiamento scientifico”.
E la wilderness? Per chi vive in Europa è più difficile pensare a un ambiente ancora selvaggio.
“È vero. Nell’America del Nord all’inizio un luogo selvaggio era un posto spaventoso, dove era meglio non addentrarsi perché pericoloso. Nel XIX secolo il concetto è stato romanticizzato, mentre con il movimento ambientalista la wilderness è stata messa su un piedistallo e considerata un posto libero dagli umani, che potevano soltanto rovinarla. Però da questo punto di vista l’Europa ha molto da insegnarci, perché noi cerchiamo di rimuovere chirurgicamente la presenza dell’uomo dalla natura selvaggia, mentre voi cercate da tempo di conviverci in modo produttivo. Basta vedere un campo coltivato nello Iowa o in Gran Bretagna: il primo si vede che è una cosa morta, da voi anche dal punto di vista legislativo si cerca di spronare gli agricoltori a occuparsi anche della natura”.
Una delle questioni principali del suo libro è se ci stiamo occupando della natura, in particolar modo degli animali, nel modo giusto, soprattutto quando cerchiamo di salvare le specie a rischio di estinzione. Come le è sorto il dubbio che stiamo sbagliando qualcosa?
“La svolta è stata un articolo che dovevo scrivere sulla salvaguardia dei lupi in Oregon, dove erano rimasti poco più di 100 individui. I ricercatori li conoscevano tutti, sentivo scienziati riferirsi agli animali che catturavano per censirli con frasi del tipo ‘Questo è quello timido’; ‘questo qui è quel tipo curioso’; ‘questo è tonto’. Per me è stata una folgorazione, perché me li ha fatti vedere come individui e mi ha fatto capire che il nostro rapporto con loro, il rapporto di chi li studia con loro, può essere davvero profondo. Ho cominciato a provare compassione per i lupi, perché è vero che cerchiamo di conservare la loro specie, ma li catturiamo per mettergli il collare, gli impediamo di accoppiarsi con i cani se lo vogliono (nel libro la storia della relazione tra due lupe e un cane è davvero emblematica, ndr). Insomma mi sono semplicemente chiesta se gli sforzi per la conservazione valgono ciò a cui li sottoponiamo. E naturalmente nessuno può chiedere agli animali il loro parere”.
E questo porta a un altro tema centrale: è giusto uccidere animali considerati invasivi in un certo ecosistema? Quanto si può andare indietro nel tempo per considerarli invasivi?
“Questo è un tema di cui mi occupo da tempo e sono piuttosto scettica sul modo in cui stiamo operando. Spesso il messaggio che arriva alla gente (gli scienziati naturalmente hanno più sfumature) è che se la specie è esotica o aliena è per quella ragione da rimuovere. Non penso questa fosse l’intenzione di chi ha cominciato a studiare questo problema, che era più interessato a capire a che punto una specie nuova crea grossi problemi in un ecosistema. Per questo, nel libro faccio esempi di cosa succede se arriva un predatore alloctono sulle isole, con conseguenze spesso devastanti, tali da giustificare un intervento urgente per salvare gli animali locali. Ma ci sono un sacco di casi in cui specie non native arrivano e non causano grandi problemi sopratutto in continenti come l’Eurasia. Perciò credo che dovremmo essere più flessibili e chiederci cosa sta facendo quella nuova specie e quali sono gli effetti. Credo che dovremmo considerare quanto sia umano sterminarli per controllarli e se decidiamo di eradicarli dovremmo pensare al sistema più umano possibile invece di usare il veleno, come si fa di solito, un metodo davvero odioso. In breve, penso che poiché si spendono tanti soldi in questi interventi, le valutazioni debbano essere ampie”
Uno degli esempi che riporta, a proposito di tanti soldi spesi e risultati opinabili, è l’Australia.
“Sì e dico che bisogna anche considerare se non sarebbe meglio preservare gli ecosistemi. Ma dipende dalla situazione, come dicevo, su un’isola bisogna usare tanti soldi e intervenire subito. L’Australia è un caso interessante, perché è un continente, ma opera come se fosse una piccola isola, con un sacco di specie che apparentemente non possono convivere con gatti, volpi e ratti. Però penso che insieme a questi interventi di eradicazione sia indispensabile fare ricerca su possibili alternative alle uccisioni, e do conto di alcuni esempi di come gli ecosistemi possono funzionare e regolarsi anche con questi nuovi predatori”.
Come è stato accolto il suo libro?
“La prima recensione è stata negativa, mi è stato contestato che pongo domande ma non do risposte. È vero, ma cerco di dare indicazioni su come trovarle, non lascio solo il lettore: capisco che sia un grosso carico, ma cerco di indicare un processo da seguire per fare le proprie considerazioni e trovare le proprie risposte. Vorrei che il mio libro fosse considerato divulgazione scientifica e insieme filosofica. Mio marito, che è un filosofo, mi ha aiutato a capire che non devi necessariamente avere una laurea in filosofia per cercare di avere un approccio filosofico alla soluzione di problemi”.
Come dice nelle conclusioni, dovremmo porci più domande ed evitare di agire come i padroni del Creato?
“Quel che ho imparato nei miei studi sulla conservazione è che di solito vediamo il salvare le specie come un problema scientifico ed è vero, però la scienza in cui dobbiamo investire è quella del comportamento umano, perché le specie non si estinguono solo per problemi biologici, la radice delle estinzioni è nelle nostre attività e scelte come umani. L’umiltà è qualcosa di cui non dovremmo mai fare a meno quando affrontiamo le dinamiche della Natura, ci aiuterebbe a valutare risposte diverse a seconda del problema, perché non penso esistano risposte dogmatiche. La natura è un regno in cui si devono fare valutazioni tra cose non espresse con la stessa unità di misura: per esempio, i diritti e le individualità dei lupi o la popolazione di questi animali in Oregon non sono misurabili matematicamente nello stesso modo, perciò bisogna prendere decisioni che si basino anche su valori morali. Lo ripeto, con umiltà, non come se fossimo dei che dispongono delle loro vite. In fin dei conti, anche noi siamo animali imperfetti e facciamo e abbiamo fatto così tanti errori nel corso degli anni!”.