Paolo Cognetti: “Io e il mio Laki, storia d’amore e d’anarchia”

Esce una raccolta in cui tanti scrittori raccontano gli animali. Tra loro lo scrittore Premio Strega che svela la sua amicizia con un cane molto speciale

Laki e io ci siamo incontrati dieci anni fa, all’inizio dell’estate. Capitammo sulla stessa macchina per caso. Avevo preso un passaggio per salire in baita e mi ritrovai tra le braccia questo cucciolo, che mi mordicchiava con i denti da latte, mentre lo trasportavano dal paese dov’era nato all’alpeggio di un mio amico che adesso non c’è più.

Lassù a duemila metri il mio amico aveva la stalla, i pascoli, una trentina di mucche da latte e un cane da pastore di nome Lupo, bravissimo ma un po’ in là con gli anni, così aveva deciso di affiancargli questo cucciolo perché imparasse il mestiere, e in futuro lo sostituisse. D’estate abito proprio sotto di lui, e questa fu la scena che cominciai a vedere due volte al giorno: Lupo che radunava la mandria, Laki che gli correva intorno, Lupo che andava a riprendere una mucca e Laki che la spaventava, il mio amico che appoggiato al suo bastone osservava l’addestramento.

I problemi con il nuovo cane si manifestarono presto. Avevamo già individuato le razze da cui Laki proviene, anche se era chiaramente un meticcio figlio di altri meticci, e non sapevamo nemmeno chi fosse suo padre… Comunque ha dentro un po’ di border collie, che è un cane da pastore, e un po’ di setter, che invece è un cane da caccia. Non so spiegare in cosa consista quest’eredità genetica, cioè come sia possibile che una certa educazione data ai padri diventi un istinto nei figli, ma qualche verità ci dev’essere. E quell’estate divenne evidente che l’istinto del pastore Laki non l’aveva: sul border collie prevaleva il setter, e il cacciatore che era in lui cominciò a farsi vivo nella forma di un inguaribile desiderio di partire.

Invece di stare al pascolo, prese il vizio di andarsene dietro a chiunque passasse di lì. Seguiva anche me, quando facevo i miei giri in montagna. Sulle creste rivelava un’incredibile agilità: dove gli altri cani si fermavano lui superava il passaggio con un salto, e dal ciglio dei dirupi si sporgeva a scrutare il mondo. Non era fatto per stare in un prato a guardare il bestiame. La sera lo riportavo giù e trovavo il mio amico che chiudeva la stalla, con Lupo accanto. Osservava Laki sconsolato: “È un cucciolo” diceva, sperando che sarebbe cambiato. Legarlo non era nel suo stile: il mio amico era uno spirito libero, dormiva in una capanna senza l’acqua corrente né il bagno, pensava che ognuno potesse vivere come gli pareva e adesso mi manca molto. Solo che poi, l’estate seguente, Laki cominciò ad allungare i suoi viaggi. Lo trovarono a zonzo per qualche paese del fondovalle, a corteggiare le femmine e litigare con i maschi, e lo rinchiusero in canile.

Poi finì su un pullman a cinquanta chilometri da noi. Così scoprimmo in Laki una passione per i mezzi a motore: non solo inseguiva le auto ma ci saltava sopra, giù al parcheggio, insieme ai turisti che tornavano dalla gita, poi aspettava che si partisse. Questi chiamavano il numero sulla medaglietta e dicevano: ho qui il vostro cane, non vuole più scendere dalla mia macchina, che cosa devo fare? Un giorno sì e un giorno no, a chiamare era la Forestale. Ogni volta erano multe. Conoscevo bene il mio amico: era un uomo buono, ma era anche un montanaro. Questa storia della polizia e delle multe era insopportabile per lui. Odiava avere a che fare con la legge. E i soldi, quei pochi che guadagna un pastore, molto meglio spenderli al bar. Tra me e Federica, la mia ragazza, nacque il timore che presto Laki sarebbe scomparso. Un cane che dà problemi, magari perché azzanna il bestiame o uccide le galline, o un cane che costa multe e noie con la Forestale, un giorno sparisce e non se ne parla più.

“Devi prenderlo tu” mi disse Federica al telefono. “Io?”. “Sei l’unico che lo può salvare”. Io non l’avevo mai voluto un cane. Mai avuto un cane da bambino, mai invidiati i bambini che ne avevano uno. In città, i cani non mi sono mai piaciuti: sembrano sempre nervosi o stupidi, e i loro padroni dei malcapitati. Gente che raccoglie escrementi dal marciapiede, gente tirata per il guinzaglio da una bestia che abbaia, gente che si aggira per aiuole spelacchiate alle sette di mattina… Io non volevo essere un malcapitato. Le dissi: “Ma io devo viaggiare, devo essere libero. È tutta la vita che faccio le mie scelte in nome della libertà. Non voglio nemmeno figli, vuoi che mi metta a tenere un cane?”.

E adesso eccoci qui. Quante cose ho imparato da Laki in questi nove anni! Molte più di quelle che gli ho insegnato. Nel suo testo fondamentale, intitolato Nature, Ralph Waldo Emerson sosteneva che la natura ha per l’uomo quattro utilità. La prima è un’utilità pratica, ovvero l’aria, l’acqua, il cibo, e tutto quello che prendiamo da lei per vivere. La seconda è un’utilità estetica, cioè la bellezza: la natura ci dà la bellezza, e chi pensa che anche l’uomo sia in grado di produrne si domandi che cosa ne sarebbe dell’arte se non avessimo mai visto un albero, un fiume, un fiore, una montagna, il mare. La terza è un’utilità logico-linguistica, la più interessante per uno scrittore: secondo Emerson, la natura ci insegna a pensare e a parlare. Ci aiuta a capire noi stessi, offrendoci le metafore con cui ragioniamo: che cosa scriveremmo, noi scrittori, se non potessimo dire il giorno e la notte, la primavera e l’autunno, la pioggia e il sole, se non potessimo paragonare il tempo a un fiume, l’amore al fuoco, la pazzia al vento, la saggezza a un albero frondoso, la morte al buio e la vita alla luce?

Infine la quarta e ultima utilità, un’utilità spirituale. Emerson diceva che se un’esperienza religiosa è possibile, questa avviene nella natura. Ecco le quattro utilità: la vita pratica, l’arte, la filosofia, la religione. Poi arrivò Thoreau, il suo giovane allievo, che non voleva più lavorare nella fabbrica di matite del padre. Prese quel libro, si fece prestare dal suo maestro un terreno sulle rive di un laghetto, ci costruì una capanna di legno e ci andò a vivere per un paio d’anni, per vedere se il maestro aveva ragione. Nature è la teoria e Walden è la pratica di queste idee.

Anch’io quell’autunno sono sceso in città con un cane che non aveva mai conosciuto il guinzaglio, mai il marciapiede, mai i clacson e le sirene, mai altri cani legati ad altri esseri umani… È stato come portare a Milano uno di quegli enfants sauvages, quei bambini abbandonati nei boschi e allevati dai lupi. Ho resistito a chi mi consigliava di mandarlo da un addestratore, perché imparasse almeno le basi del vivere civile, cioè a fermarsi a un mio comando, a rispettare la mia autorità e insomma a vedermi come il suo padrone. Io non volevo essere il suo padrone. Ho problemi ancora adesso se qualcuno mi chiede: “È il tuo cane?” (mi avventuro in risposte ridicole tipo: no, non è mio, viviamo insieme). Con Thoreau, mi piace molto il pensiero anarchico e uno degli ambiti in cui questo pensiero si è esercitato di più è proprio la pedagogia. Ecco: potevo riuscire a dare a Laki un’educazione libertaria? Potevamo imparare, io e lui, a vivere felicemente senza il premietto e la punizione, e lui poteva stare felicemente al mondo senza seduto, zampa, stai? Potevo insomma occuparmi di lui proteggendo quella sua bellissima anima selvatica?

Questo testo è un estratto da uno dei racconti di Animalia (Bur Rizzoli, pagg. 544, euro 16,50), raccolta firmata da autori di successo

(Fonte LA REPUBBLICA)