Ventisette anni, di Vetulonia, è quasi un alieno della musica italiana. Il suo primo disco è un “bestiario”: otto fiabe dedicate alla sua terra
Immaginiamo una festa di fine anno. A bordo piscina. Con il Martini, la burrata, il deejay set e purtroppo i fenicotteri rosa gonfiabili. Si festeggia la nuova musica italiana, quella degli enfant prodige maghi dell’algoritmo e della prosa, dei nativi digitali favorevoli alla decrescita felice e dei periferici che si sono arricchiti in un click.
Ci sono tutti, vincitori e vinti di Sanremo, X Factor, Amici, scalatori di classifiche di Amazon e Spotify: un parlamento rovesciato per età, ambizioni, colori, motti, sogni. Hanno tutti i capelli rosa, blu, verde elettrico, doppi tagli, tatuaggi, anelli, taglie sbagliate, extra large. Discosto, c’è un tipetto che sembra schizzato fuori dalla copertina di un disco degli Yes, The fool on the hill. Si chiama Lucio Corsi.
Ventisette anni, di Vetulonia, città etrusca in provincia di Grosseto, piena Maremma che lui descrive così: «Il farwest italiano, la Toscana brulla, dura e magica dove agirono briganti e butteri». È cresciuto in campagna, in un podere circondato da alberi che «fanno l’ombra vera», dove c’è «il buio vero, quello che non si ricava: esiste», e gli animali sono apparizioni fulminee ma costanti. Per questo, il suo primo disco è dedicato a loro, gli animali che per lui hanno sempre meno spazio e allora «i draghi sono diventati lucertole», perché le città si espandono indiscriminatamente – lui dice che sono «metropoli tentacolari»: parla come parlava Luciano Bianciardi, grossetano come lui, e come lui spaventato da Milano, fortemente scettico rispetto a quella che chiamava «la società divertentistica e copulatoria».
A gennaio del 2017, quando la nuova musica italiana era ancora l’indie, almeno per i giornali, Corsi pubblicava Bestiario musicale: otto tracce, ciascuna dedicata a un animale del bosco di cui faceva un ritratto e una fiaba. Il cinghiale era «terremoto delle zolle, uragano delle fronde»: in una diretta social dal Museo della Scienza di Milano, ha spiegato che con quel verso intendeva che i cinghiali hanno trasformato il paesaggio, smussato le colline «che si sa, un tempo erano quadrate», comportandosi come agenti atmosferici.
Poeta, cantastorie, aedo, musicante di Brema, folletto, stramba creatura: lo hanno definito in questi e cento altri modi, tutti giusti e insufficienti. Diciannove anni a Vetulonia, dove torna appena può perché solo lì riesce a scrivere, lo hanno reso impenetrabile al suo tempo, a ogni tempo: lui sta nello spazio, non nel tempo. La cosa più precisa che si può dire di lui è che non assomiglia a niente. Certo, richiama gli anni Settanta e certo, il film che gli ha cambiato la vita è Velvet Goldmine, e i dischi che lo hanno allevato sono di Rondelli, Gaber, Paolo Conte, Bowie, Graziani, Dalla, Flavio Giurato (il suo preferito). Ma non assomiglia a niente lo stesso, non ai rapper suoi coetanei, che ascoltano e amano altro, e non ai Maneskin che ascoltano quello che ascolta lui e amano molte delle cose che ama lui, chitarre incluse. L’approccio artigianale alla musica, che studia da quando aveva quattordici anni, è uno dei molti tratti che lo pone in attrito rispetto alla tendenza contemporanea. È un feticista della strumentazione, sul palco siede al piano con in bocca un’armonica.
Nella sua Gibson del ’74, dopo averla comprata, ha trovato l’esoscheletro di uno scarabeo: lo ha lasciato lì, anche se fa rumore. Gli animali, ancora: sempre.
Una delle ragioni per cui Lucio Corsi è così interessante e, sebbene unico, anche esemplare, è che incarna bene lo spirito ecologista della sua generazione. Quello spirito che è facile definire woke (woke è ciò che avantieri avremmo definito radical chic) e che certamente contiene svariate dosi di faciloneria adolescenziale e conformismo intellettuale, ma che è anche, soprattutto, il carburante di un’etica nuova, che nasce da un amore pragmatico e romantico per il mondo intorno. La solidarietà, concetto che agli adulti tardo novecenteschi pare tuttora buonista, per la generazione di Lucio Corsi è un fatto concreto, la condizione della relazione tra uomo e natura e, di riflesso, tra uomo e uomo. L’armonia con il creato, che noi più avvertiti siamo abituati a sbeffeggiare come rimpasto fricchettone, è per loro un fatto di solidarietà, intesa come vincolo, e quindi dovere, e quindi accesso al diritto: intesa come la intende l’articolo due della Costituzione italiana. Solidarietà e anarchia: «C’è un movimento punk nella foresta, gli alberi con i capelli verdi sulla testa, e le galline con le creste mal viste dalla guardia di finanza, che non si accorge del crimine che avanza». Che cantastorie fantastico. L’anno scorso, sul limitare del primo lockdown, Corsi era in tour con il suo secondo disco, Cosa faremo da grandi: ancora otto tracce, ancora un disco concepito alla maniera del Novecento, con uno sviluppo, un tema portante e decine di affluenti. Insomma, un’opera. Era già Lucio Corsi: famoso e adorato dai superstiti della nicchia indie e dai traditori di quella indie pop, cominciava a essere trasversale, iconico, televisivo (è stato anche ospite fisso de L’assedio di Daria Bignardi), ma mai social.
Nel disco parla di vento, conchiglie, mare, lampioni, tempo e della grande impresa che è la rinuncia, di come preluda al cambiamento e di quanto sia necessaria e salutare. «La mia canzone parla di un modo di affrontare la vita dove si festeggiano più le linee di partenza che i traguardi»: quando suona dal vivo, Corsi non manca mai di raccontare i retroscena e i perché delle sue canzoni, come faceva Tenco, convinto di doversi sempre spiegare.
Com’è stato possibile che un ragazzo così speciale avesse un successo tanto disarticolato da tutte le regole del successo? Una parte di merito è della casa discografica che lo ha accolto, appena arrivato a Milano, la Picicca, e del suo manager, Matteo Zanobini, che il suo lavoro ce lo racconta così: «Il mio obiettivo è saper indirizzare gli artisti senza snaturarli. Con un talento puro che ha una visione molto precisa del suo lavoro, come è Lucio Corsi, la prima cosa da fare è preservare la sua anima, accompagnarla e intervenire il meno possibile, come si fa in cantina con un vino naturale. Non si aggiunge niente e si aspetta che la natura faccia il suo corso. In un mercato così veloce, è una strategia rivoluzionaria».
Il resto, è il talento puro di un ragazzo che è una creatura, e certe volte sembra una pianta, magari un vitigno. E per fortuna c’è qualche altro ragazzo, un po’ più adulto di lui, che lo protegge. La concordia generazionale è migliore della rottamazione, no?
di Simonetta Sciandivasci
17 Agosto 2021
(Fonte LA REPUBBLICA)