Nella Grande Guerra, accanto agli uomini, ha combattuto anche un esercito a quattro zampe. Cavalli, muli, cani, piccioni furono utilizzati per lo spostamento di reparti e materiali e per le comunicazione. Nell’ultimo documentario di Folco Quilici (in onda su History Channel) il racconto di una coabitazione forzata, tra sofferenze e amicizia
Dieci milioni tra cavalli, muli e asini; 200mila piccioni e colombi viaggiatori; oltre 100mila cani. E ancora, maiali, buoi e polli. Un totale di 16 milioni di animali. Sono questi i numeri dell’esercito a quattro zampe che affiancò, durante la Prima Guerra mondiale, i 74 milioni di soldati coinvolti nel conflitto. Eroi umili, spesso dimenticati dai libri di storia, chiamati a condividere — con le truppe tradizionali — non solo la dura vita del fronte, ma anche rapporti speciali di amicizia. Come nell’antichità – basta pensare agli elefanti di Annibale utilizzati per valicare le Alpi – anche nella Grande Guerra il loro uso non conobbe limiti. A raccontare le loro vicende è il documentario «Animali nella Grande Guerra» di Folco Quilici, prodotto da Mario Rossini per Red Film e Istituto Luce-Cinecittà, che andrà in onda su History Channel il 7 giugno alle 21 all’interno della programmazione organizzata per ricordare l’80esimo anniversario dell’entrata in Italia nel Secondo conflitto mondiale (24 maggio 1915). L’appuntamento è sul canale temporaneo 408 di Sky «Le guerre di History» (e dal 9 giugno in replica su History al 407), dedicato a quei trent’anni (1914-1945) che segnarono la nostra storia. Come ha scritto Lucio Fabi in Guerra bestiale, testo al quale Quilici si è ispirato per questo lavoro, quella che ebbe luogo tra il 1914 e il 1918 fu «una guerra moderna e primordiale, che non avrebbe potuto neppure iniziare senza l’arruolamento di massa di milioni di animali». Protagonisti — anche loro — della carneficina.
Cavalli da traino
Il Primo conflitto mondiale è considerato da molti storici il vero spartiacque tra Ottocento e Novecento: fu il primo a interessare la quasi totalità dei Paesi della carta geografica e il primo nel quale si fece uso su larga scala di armamenti moderni, ma rimase comunque in parte legato alle tattiche del passato. Tanto che, nell’immaginario comune, l’animale simbolo della Grande Guerra è proprio il cavallo, compagno fidato dell’uomo delle battaglie di tutti i tempi.Si stima che quelli impiegati sui vari fronti di guerra furono quasi dieci milioni: furono in prima fila negli scontri diretti, ma vennero adibiti anche al traino di carri e cannoni, tanto che molti proprietari furono costretti a offrirli in occasione della «leva equina». Lo racconta Steven Spielberg in War Horse (2011), incentrato sulla figura di Joey, un purosangue inglese separato a forza dal padrone. Animali ai quali viene riconosciuta la fedeltà. Il maggiore Francesco Baracca, l’asso della giovane aviazione italiana, scelse di far dipingere sulla carlinga del suo aereo un cavallino rampante nero, con la coda all’ingiù, simbolo di coraggio. Abbattuto in volo, il 19 giugno 1918, da un biplano austriaco, il cavallino rampante di Baracca smise di volare nei cieli, ma iniziò a correre in pista grazie a Enzo Ferrari che lo scelse come emblema della sua scuderia.
Il «fiuto» in battaglia
I cani, invece, furono utilizzati per il ritrovamento dei feriti e, vicino ai soldati, divennero spesso il loro unico legame di affezione durante il conflitto, dentro e fuori la trincea. «Cani da guerra» vennero chiamati quelli addetti al trasporto di viveri e munizioni verso posizioni isolate, come sull’Adamello dove furono chiamati a trinare slitte con vettovaglie, medicinali, munizioni e pezzi di artiglieria. Ma i cani furono anche addestrati a fiutare la presenza di armi, mine ed esplosivi. Un’esperienza che ancora oggi li vede impegnati ad esempio nel gruppo cinofilo dell’Esercito di Grosseto, che dal 2002 alleva ed addestra sopratutto pastori tedeschi e pastori belgi malinois, usati in conflitti come Libano e Afghanistan.
I muli di Gadda
Umili e generosi, instancabili lavoratori, a cadere furono migliaia di muli, che rappresentarono durante il conflitto l’unico mezzo di trasporto attraverso i difficili sentieri alpini che, non a caso, sono ancora oggi chiamati «mulattiere». Autentico mezzo da combattimento, il mulo fu fondamentale per trasportare le armi – portando in groppa gli obici da 105/14 o le cucine da campo smontate — e rifornire i reparti logistici in alta montagna. All’occorrenza riscaldavano i soldati com il loro corpo o, anche, a sfamarli con la propria carne. «Una colonna ininterrotta di muli fermi e abbandonati testimoniava che il ponte era saltato», scrive il tenente degli alpini Carlo Emilio Gadda, travolto nella disfatta italiana del 25 ottobre 1917 a Caporetto. «La colonna dei muli, preziosi e insostituibili strumenti nella nostra guerra da montagna, fu un nuovo e doloroso colpo per me. […] Calcolai che duemila animali e più fossero gli abbandonati: la nera fila spiccava lungo il parapetto della strada». Molti soldati, come quello che sarebbe presto diventato uno dei più celebri scrittori del Novecento, lasciarono nelle loro memorie un ricordo delle stragi di animali.
Eroi da film
Senza dimenticare colombi e piccioni, che assicurarono all’Esercito Italiano un mezzo di collegamento tra le truppe operanti in prima linea e i comandi retrostanti. A loro erano affidati dei messaggi in un tubo di alluminio fissato alla zampa o, a volte, in un astuccio di pelle che veniva avvolto intorno all’arto: l’unico pericolo è che questi animali venissero abbattuti per intercettare le comunicazioni segrete. Altri ancora — come già detto per i cani — segnalavano la presenza di gas letali o liberavano le trincee dai ratti. «Eroi» diventati in qualche caso anche divi decorati e mediatici, come il piccione Cher ami, il pitbull Stubby, o il pastore tedesco Rin Tin Tin trovato abbandonato in Lorena da un soldato americano e diventato oltreoceano una star cinematografica.
La fatica della trincea
Ma la vita della trincea fece conoscere ai soldati — già colpiti dall’epidemia di spagnola — anche altri animali, come topi e pidocchi. L’ambiente umido della trincea favorì la proliferazione di infezioni e malattie: diversi soldati preferirono dormire all’aperto, evitando almeno la notte sporco e umidità, altri iniziarono a bollire nell’acqua — quando c’era — le divise per combattere le infezioni. Scrive sulla forzata convivenza con i parassiti nelle trincee il fante Luigi Gasparotto: «Questa notte fu la sagra dei topi. Certi topi slavi, grandi come gatti, con code interminabili, correvano sulle panche, passeggiavano sul viso, venivano persino a leccare le labbra. Non riesco a spiegare come questa notte si siano dati convegno proprio qui tutti i topi del Carso. Impossibile chiudere occhio; topi di qua, topi di là topi che sbucano dai crepacci, che scendono dalla scaletta, che guizzano e saltano da una parte all’altra; vera scena del cinematografo».
«Militari in piccolo»
Le ricostruzioni del documentario sono state ambientate «negli stessi luoghi dove combatterono migliaia di ragazzi. L’idea di raccontare questi eroi dimenticati, però, nacque in occasione delle celebrazioni per il centenario della Grande Guerra, nel 2015», spiega al Corriere della Sera il produttore Mario Rossini, appassionatosi alla storia grazie al padre, docente alla Sapienza di Roma. Gli animali sono stati in questo caso il pretesto per parlare di una storia universale: «Abbiamo deciso di mixare fiction e realtà — anche con scene crude — per dare movimento alla vicenda e rendere la Storia, quella con la s maiuscola, meno didattica. Certo, è un film di nicchia, ma sarebbe utile portarlo nelle scuole, a dimostrazione che i grandi eventi si possono approcciare anche con una prospettiva diversa, che rientra nell’impegno che da sempre la Rai porta avanti portando in televisione la memoria del Paese», sottolinea. Non a caso — confessa — «in futuro mi piacerebbe raccontare le storie di Liliana Segre, Alex Zanardi e del banchiere gentiluomo, Amadeo Peter Giannini».
Il lavoro «affettuoso» con Quilici
Un lavoro nel quale la presenza di Quilici è stata fondamentale: «Lo conobbi quando avevo 20 anni — continua Rossini— e a conquistarmi fu il suo approccio antropologico-documentarista, il suo modo di lavorare come i documentaristi di una volta. Insieme abbiamo riletto il poco materiale esistente sull’argomento, aggiungendo i suoi preziosi riferimenti simbolici e aneddoti». Tra le cose che maggiormente lo hanno colpito «le tante storie di animali costretti a indossare come gli uomini una mascherina per difendersi dal gas. Erano considerati militari in piccolo, erano presenze indispensabili nel combattimento», ma anche «la sofferenza degli animali abbandonati durante gli spostamenti dell’esercito». E proprio a Quilici e a quello che è stato l’ultimo documentario prima della morte (24 febbraio 2018, ndr), va l’ultimo pensiero: «Era un uomo sensibile, lucido, presente. Nel lavorare con lui c’è stato il piacere di un legame che durava da 30 anni, è stata un’esperienza affettuosa e umana, oltre che professionale». Su quelli che furono i campi di battaglia, ricordiamoci che — insieme ai soldati — riposano anche migliaia di animali che hanno con coraggio e inconsapevolmente dato la vita.