Con il 2018, Anno del Cane in Cina, l’umanità rende omaggio a un’amicizia millenaria, a una fedeltà senza pari, a un amore materno…
Con scene di giubilo e scodinzolii, celebriamo il 2018, l’anno del cane. Per lo zodiaco cinese saranno mesi ispirati all’empatia e all’onestà tipica di questo animale. E all’umanità è data l’occasione di rendere omaggio a un’amicizia millenaria, a una fedeltà senza pari, a un amore incondizionato che somiglia sempre più a quello materno.
Le novità cinofile sono due, entrambe spiazzanti. La prima è che la popolazione canina ha appena raggiunto quota un miliardo nel mondo. La seconda è che il nome da cane maschio più diffuso oggi a Milano non è più Paco, ma Mario. Sì, Mario. Se la prima notizia apre interrogativi sulla sostenibilità ambientale dell’industria del pet food (vedi riquadro a pagina 74), la seconda è frutto di un’indagine del sito themillennial.it, che ha mandato gli stagisti in giro per i parchi cittadini a scoprire i nomi che i trentenni danno ai loro quattrozampe. In entrambi i casi, dalla scienza alla pseudoscienza, si moltiplicano i segnali di un fenomeno che per gli amanti degli animali era già una certezza. Ovvero che i cani sono ormai diventati delle “persone”. Non umani, certo, ma persone.
Non esiste in natura, ci ha insegnato Konrad Lorenz. Il cane è stato creato dall’uomo. Quando, non si sa. O meglio, come nel caso degli umani, c’è un anello mancante. Prima esistevano scimmioni e lupi. Poi l’evoluzione ci ha portato uomini e cani. Prima i lupi hanno cominciato a seguirci per mangiare gli avanzi di caccia, poi abbiamo iniziato a seguirli noi perché il loro naso portentoso ci portava dove c’erano prede gustose. O forse è accaduto il contrario. Fatto sta che adesso il loro naso è portentoso perché porta milioni di follower a sfamare i nostri profili Instagram. Ma è proprio il mistero di questo reciproco adattamento ad ammantare di poesia questa storia. Perché circa 10 mila anni fa è successo qualcosa di molto bello e magico. In qualche accampamento, in qualche foresta, accanto a un fuoco, dei cuccioli di lupo sono stati adottati dall’uomo. Forse da una donna: erano fragili, magri, rifiutati dal branco, questuanti tra i rifiuti. Ma sono stati i loro occhi grandi a smuovere istinti di protezione. Il loro sguardo ha continuato a ipnotizzarci per secoli. La scienza lo spiega così: i cani sono “neotenici”, mantengono caratteristiche da neonati anche da adulti. Per esempio i loro occhi rimangono grandi. Abbiamo selezionato i nostri amici perché rimanessero con lo sguardo dolce. I “protocani” erano dei peluche primitivi da proteggere e nutrire. Essere sicuri che sia andata in questo modo è come chiedersi se davvero quando chiudiamo il frigo la luce si spegne. Nessuno lo sa veramente ma nessuno si chiude nel frigo. Ci fidiamo.
Questo fatto della neotenia, però, è l’unico strumento infallibile per capire che cosa è oggi il rapporto tra gli umani e i cani. Basta guardarli mentre si guardano tra loro. Dimenticate per un attimo il vostro cane, se ne avete uno. Per voi è unico, è normale che lo vediate con gli occhi a cuore. Guardate i cani degli altri. Sarà disarmante. Siamo a Madesimo, in Valchiavenna, il termometro segna -7. Fuori dal panificio di via Carducci c’è Marco, 13 anni, seduto accanto al suo Whiskey, un labrador. Mentre attende la madre, Marco parla con il cane. Lo fissa dritto negli occhi, tenta di riscaldarlo con le mani. Ogni tanto Marco dà una sbirciata in giro perché non vuole che lo vedano gli amici, teme che lo sfottano. A 13 anni se parli con il cane invece che con la compagna di classe tettona la vita può essere complicata. Ma lui ha deciso, Whiskey non aspetterà da solo: «Seguo la pagina Facebook “Cani tristi fuori dai negozi”, non lo lascio più» dice. Ce ne sono altre dedicate a cani tristi dentro le auto o alla finestra. Per fortuna ce ne sono altre, allegre, che mostrano cani che dormono a letto o che prendono aria fuori dal finestrino. E c’è il lavoro del fotografo scozzese Dougie Wallace, che vi mostriamo in queste pagine. Lui lo commenta così: «Per me un cane è sempre stato solo un cane finché non mi sono imbattuto in un esercito di “genitori”». Il risultato: sguardi da “clickbaits”, direbbe un social media manager: l’irresistibile impulso a mettere cuori e ancora cuori sotto quei musi.
Per non risultare completamente rincretiniti da questo amore metafisico, però, bisogna anche chiedersi seriamente se l’interazione emozionale e questo scambio di amorosi sensi siano davvero restituiti dal cane. Siamo solo amanti non ricambiati? Non chiedete mai all’addestratore cinofilo (e fotografo, e giornalista) Alessio Pagani se il rapporto psicologico uomo-cane è fermo all’etologo Ivan Pavlov. Potrebbe mordervi: «Siamo oltre, la tecnica del riflesso condizionato è superata e non rende merito alle reali capacità di comunicazione, emozione e autonomia di decisione sviluppate dal cane». È dimostrato che i cani comprendono perfettamente circa 600 parole, e basta vedere i lavori pesanti che svolgono per noi per capire a che livello sia l’empatia con l’uomo. Pagani si spinge a dire che la nostra civiltà non sarebbe a questo punto senza cani. Lo pensano anche Brian Hare e Vanessa Woods, della Duke University in North Carolina. Nel libro The Genius of Dog usano la parola “gentilezza” come chiave per spiegare l’adattamento del cane: i primi cani sarebbero stati “gentili” con noi e alla fine pare che siano stati loro ad adottarci. Per gli accademici, «la simbiosi ora è totale e il cane legge anche i lievi movimenti nell’occhio umano».
Quegli occhi attenti sono la misura del legame tra Matteo e Alma. Lui è un carabiniere forestale toscano di 30 anni, lei è una meticcia, una detective delle polpette avvelenate. Le scova e si siede accanto al boccone fino all’arrivo di lui. Vivono insieme giorno e notte. Lei ha occhi solo per lui. Danno la caccia ai bracconieri che piazzano esche alla stricnina per uccidere i loro concorrenti lupi, volpi, linci. Poi il veleno entra nella catena alimentare e colpisce gatti, faine, tassi, uccelli, barbagianni, pipistrelli, api. Matteo e Alma, due poliziotti per i boschi del centro Italia. Ci sono ancora poche risorse per pagarne altri.
I veri eroi si sa che non lo fanno per soldi. Come i retriever della Royal Dutch Guide Dog Foundation, cani addestrati a guarire i veterani dallo stress post traumatico. I soldati fanno incubi di guerra: i cani gli dormono accanto e capiscono quando arrivano i brutti sogni. Li leccano in faccia per svegliarli e accendono la luce. Quelli che intervengono nei terremoti respirano metri cubi di polvere ma non mollano la pista se “sentono” un superstite.
Li chiamano “cani da lavoro” e secondo gli esperti sono animali appagati, sereni. Poi ci sono i cani di famiglia a cui spesso non permettiamo di fare i cani, ma ci sentiamo comunque padroni modello. Mia Canestrini, 36 anni, è una zoologa del progetto Life-M.I.R.CO-Lupo, nel Parco dell’Appennino Tosco Emiliano. Studia i lupi, il fenomeno del randagismo canino ed è proprietaria di un quattrozampe spettinato, “Il Fiffo”. Sulla pagina Facebook del progetto spiega quanto l’uso dei cani da pastore per allontanare i lupi sia più efficace della doppietta: «Ma non posso usare il termine “cani da lavoro” perché mi insultano. Passo per una sfruttatrice». È la prova che, accanto alla sacrosanta elezione del cane e del gatto a membri effettivi della famiglia, li vogliamo nevrotici come noi. Li trattiamo come bambini, pensiamo di farli felici come fossero creature disneyane pronte ad arrotolarsi sul divano con noi davanti alla tv. E intanto sviluppano stress, si mordono zampe e coda. «Si chiama “antropomorfizzazione” e aumenta l’ignoranza sugli animali», dice la Canestrini. «L’affetto non è in discussione. Ci sono ricerche che sostengono che le donne amano alla follia gli animali dotati di fitto manto peloso. Io, con Il Fiffo, ne sono la prova. Però l’esagerazione consumistica o la spasmodica ricerca della dieta perfetta sono tutti sintomi di un rapporto che nuoce al cane come alle persone». E se il cane è una persona, tutto torna.
Forse non È più vero nemmeno che ai nostri cani manca la parola. Sappiamo che capiscono 600 parole e che fanno uno sforzo enorme per intuire che cosa vogliamo. Presto i robot di Google potranno comprendere più di un milione di vocaboli. Ma con 600 parole più un naso di cane si possono comunque comporre poesie memorabili.
(fonte MARIE CLAIRE)