Catastrofe nel mondo animale: dai gorilla ai pappagalli, persi i 2/3 della fauna selvatica

Il WWF Italia: «Nel mezzo di una pandemia che colpisce tutto il Pianeta è urgente invertire la tendenza entro il 2030»

Le peggiori previsioni si sono avverate in questo 2020 caratterizzato dall’emergenza sanitaria per la pandemia da Sars-coV-2. Gorilla, orsi, pappagalli, tartarughe, storioni: le popolazioni di fauna selvatica segnano un calo medio di due terzi in meno di mezzo secolo, “causato in gran parte dalla distruzione degli ecosistemi che sta anche contribuendo all’emergere di malattie zoonotiche come Covid-19”. Questo l’allarme lanciato dal WWF nel nuovo rapporto Living Planet, l’analisi della perdita di animali nel mondo dal 1970 ad oggi, Gli impatti economici del declino della natura costeranno al mondo almeno 479 miliardi di dollari all’anno. Una distruzione crescente “con impatti catastrofici ma anche sulla nostra salute”, dice il direttore generale del WWF Internazionale.

«Nel mezzo di una pandemia che colpisce tutto il Pianeta – avverte la presidente del Wwf Italia, Donatella Bianchi – è urgente invertire la tendenza entro il 2030». Tra le cause della grave perdita di animali, sottolinea il rapporto Living Planet, “la deforestazione, l’agricoltura non sostenibile e il commercio illegale di fauna selvatica, responsabili anche della diffusione di epidemie come il Covid-19”. Il Living Planet Index (LPI), fornito dalla Zoological Society of London (ZSL), mostra infatti che i fattori ritenuti in grado di aumentare la vulnerabilità del Pianeta alle pandemie, come il cambiamento dell’uso del suolo e l’utilizzo e il commercio di fauna selvatica, sono gli stessi che hanno determinato il crollo delle popolazioni di specie di vertebrati.

In particolare, le specie in via di estinzione analizzate includono il gorilla di pianura orientale, il cui numero nel Parco Nazionale Kahuzi-Biega (Repubblica Democratica del Congo), ha visto un calo stimato dell’87% tra il 1994 e il 2015, principalmente a causa della caccia illegale, e il pappagallo cenerino in Ghana sud-occidentale, il cui numero è diminuito fino al 99% tra il 1992 e il 2014 a causa delle trappole usate per il commercio di uccelli selvatici e la perdita di habitat. Dal monitoraggio di quasi 21.000 popolazioni di oltre 4.000 specie di vertebrati tra il 1970 e il 2016, emerge anche che le popolazioni di fauna selvatica che si trovano negli habitat di acqua dolce hanno subito un calo dell’84%, il calo medio della popolazione più netto tra tutti i bioma, equivalente al 4% all’anno dal 1970. Un esempio è costituito dalla popolazione riproduttiva dello storione cinese nel fiume Yangtze in Cina, diminuita del 97% tra il 1982 e il 2015 a causa dello sbarramento del corso d’acqua.

A fianco delle statistiche allarmanti, ci sono però esempi di alcuni casi che mostrano, dice il WWF, “il potenziale di ciò che possiamo ottenere con un’azione immediata, collettiva e decisa”. È il caso delle popolazioni di alcune specie come lo squalo pinna nera del reef (Carcharhinus melanopterus) nell’Ashmore Reef in Australia occidentale o il castoro europeo (Castor fiber) in Polonia, o di quelle di tigri e panda, aumentate nel loro numero globale (a parte alcune popolazioni locali a forte rischio). Il Living Planet Report 2020 viene lanciato a pochi giorni dalla 75a sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella quale i leader dovranno esaminare i progressi compiuti sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’agenda 2030, l’Accordo di Parigi sul clima e la Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD). Il Living Planet Index è una delle misurazioni più complete della biodiversità globale”, ha affermato il Dott. Andrew Terry, direttore conservazione della Zoological Society of London. “Un calo medio del 68% negli ultimi 50 anni è catastrofico e una chiara prova del danno che l’attività umana sta arrecando al mondo naturale”.

10 settembre 2020

(Fonte LaZampa.it/ La Stampa)