Prima il cane di Hong Kong, poi il gatto di Liegi, in Belgio. In questi giorni di lotta al coronavirus sporadicamente emergono casi di animali domestici trovati con tracce di contaminazione. L’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e la comunità scientifica è compatta nel dire che non ci sono prove che i nostri quattro zampe possano essere una fonte di pericolo attiva nella trasmissione dell’infezione all’uomo.
All’Università di Torino il prof. Sergio Rosati – Professore Ordinario di Malattie infettive del Dipartimento di Scienze veterinarie – e la dott.ssa Barbara Colitti – Borsista di ricerca presso lo stesso dipartimento – stanno conducendo uno studio per valutare con metodo scientifico il ruolo che giocano gli animali domestici nel contesto del Covid-19.
Professor Rosati ci spiega la natura di questo Covid-19?
«Questo è un virus che ovviamente ha un’origine animale. Ci sono studi fatti in tempi non sospetti, nel 2017, dove è stata condotta una sorveglianza su tutti i coronavirus che venivano isolati da animali selvatici raccolti in diverse parti del mondo ed è emerso che il 90 per cento dei coronavirus identificati erano presenti nei pipistrelli. Questi sono animali che hanno una storia evolutiva di 50 milioni di anni, quindi sono sul nostro pianeta prima di noi, ed il migliaio di specie in cui è diviso ha colonizzato quasi ogni parte del mondo.
I pipistrelli hanno una caratteristica peculiare, ossia sono serbatoio di molti virus: in Africa sono serbatoio dell’Ebola e della Rabbia, in Asia sono serbatoio dei beta-coronavirus compreso quello della Sars. Sono degli animali che hanno avuto una lunghissima fase di co-evoluzione con questi virus tanto è vero che non si ammalano: questi virus vivono di solito nel loro intestino, infatti lo studio di cui parlavo prima ne ha rilevato la presenza nei campioni fecali. E il virus ha stabilito un equilibrio con l’animale in cui si trova e viceversa. Per fare un altro esempio basta pensare al virus della Peste suina africana che uccide il 99 per cento dei suini domestici, ma vive tranquillamente nel facocero africano da secoli senza dargli nessun problema.
Dunque il pipistrello è il serbatoio di questo virus. In un altro studio del 2016 è emerso che in un villaggio localizzato nei pressi di caverne popolate dai pipistrelli, gli abitanti avevano degli anticorpi. E’ presumibile che queste persone siano state infettate perché venute in contatto con le feci di questi animali e, di fronte a un contagio blando, il loro organismo abbia generato meccanismi di difesa. Ma quando il comportamento umano è sconsiderato – perché i pipistrelli vengono cacciati, vengono eviscerati o mangiati – allora la trasmissione del virus è più forte.
Lo stesso può accadere quando si viene a contatto attraverso delle specie intermedie, non è detto infatti che il virus passi direttamente dal pipistrello all’uomo: nel caso della Sars la specie intermedia è stato lo zibetto, un carnivoro selvatico che caccia e si nutre anche di pipistrelli, ma che non ha problemi con la convivenza con il virus. Il problema è nato quando l’uomo ha cacciato, manipolato e mangiato lo zibetto. Per capirci, gli anticorpi verso la Sars erano presenti negli addetti alle cucine asiatiche due anni prima che scoppiasse la forma respiratoria. Una chiara prova di questo percorso e del fatto che questi virus hanno una necessità di un adattamento lungo, spesso non facile. Ma se l’uomo crea loro queste opportunità, allora prima o poi può capitare che si selezioni un virus capace di infettare le cellule dell’uomo. Non è automatico, ma può capitare. E se questo avviene in una metropoli come Wuhan con dieci milioni di persone, è evidente che il virus, nel momento in cui riesce a guadagnare questa proprietà di replicarsi nelle cellule dell’uomo, ha un elevato potenziale epidemico e poi pandemico».
Ci spiega se cani e gatti hanno un ruolo nella trasmissione del coronavirus?
«Gli animali in questo momento possono avere due ruoli: uno è quello del trasportatore passivo, come potrebbe essere un oggetto inanimato. Pensiamo alla ciabatta o al cellulare che possono essere veicolo di trasmissione. L’altro ruolo è quello di animale che si contamina con il virus a basso titolo e, anche in questo caso, il ruolo epidemiologico che può giocare in questa fase dell’epidemia è trascurabile».
Il caso del cane di Hong Kong prima, il gatto di Liegi poi. Come se li spiega?
«In questo momento ci stiamo basando su pochissimi dati: il primo caso è quello emerso a Hong Kong relativo a un cane che è stato trovato positivo a un tampone. Questo tampone è rimasto positivo per qualche giorno e, in realtà, un numero di giorni che tenderebbe a escludere una contaminazione passiva però al quale non è seguita la sieroconversione, ossia la risposta del sistema immunitario all’infezione. Quando un animale rimane sieronegativo, ossia non sieroconverte, cioè non produce anticorpi, vuol dire che il virus non è neanche riuscito a interessare il sistema immunitario. Vuol dire che si è replicato talmente poco che il sistema immunitario non se ne è neanche accorto. Il fatto che il cane sia rimasto sieronegativo fa pensare che se c’è stata una replicazione questa sia avvenuta su pochissime cellule della mucosa del naso, che il virus fa fatica a passare da un ospite all’altro e che la quantità di virus che viene prodotta da queste poche cellule che si sono infettate è trascurabile. Tutto fa pensare che negli animali vi sia una contaminazione con una lieve, forse, capacità replicativa ma non in grado di utilizzare il cane o il gatto come una specie alternativa alla trasmissione.
Poi negli ultimi giorni c’è stata la notizia di un gatto contaminato in Belgio, ma questo è un caso che l’Oie (Office International des Epizooties), l’organizzazione che si occupa dell’epidemia degli animali, non ha ancora notificato. Quindi non sappiamo praticamente nulla».
Per fare chiarezza. Ci può spiegare i concetti di infetto, contagiato e infettivo?
«Una persona diventa infetta nel momento in cui il virus comincia a replicare, quindi inizia l’infezione. L’infettività di una persona è quindi la capacità di questa persona di trasmettere l’infezione. Questo può avvenire prima dei sintomi clinici, la cosiddetta attività pre-sintomatica, oppure contemporaneamente ai sintomi oppure anche quando i sintomi stanno venendo meno, ossia nella cosiddetta fase di convalescenza. L’infettività quindi dura un po’ più a lungo, sia prima che dopo la fase dove il paziente presenta i sintomi clinici. Contagiato invece è quando una persona viene a contatto con delle cariche infettanti, ossia quando una persona trasmette a un’altra persona una carica virale sufficiente a iniziare una nuova infezione. Nel caso del cane di Hong Kong è più corretto parlare di contaminazione. L’animale è stato contaminato, ma non infettato: è entrato a contatto con cariche infettanti, ma non è detto che si sia infettato».
I proprietari di quattrozampe possono stare tranquilli?
«La situazione attuale vede certamente decine di migliaia di animali che sono a contatto con persone positive al Covid-19, ma il fatto che le notizie sugli animali contaminati siano del tutto trascurabili fa pensare che i quattrozampe non siano un problema, che non giochino un ruolo importante. Come trasportatori passivi giocano il ruolo di qualsiasi sostanza inanimata: dalla ciabatta al cellulare, alle altre cose che tocchiamo. E nulla di più di tutto questo».
Che consigli possiamo dare ai proprietari di animali?
«Se c’è in famiglia una persona Covid-19 positiva, così come con i familiari deve assumere dei comportamenti prudenti – dall’evitare il contatto ravvicinato all’usare le mascherine e guanti – la stessa cosa dovrebbe essere riservata ai nostri animali domestici: cane e gatto è meglio che possano essere accuditi da persone non Covid-19 positive, cercando di mantenerli a una distanza di sicurezza rispetto alla persona positiva. In ogni caso è sempre bene seguire le normali condizioni igieniche, consigliate anche dall’OMS ossia: mantenere pulite le loro zampe e il pelo, evitare di baciarli, condividere con loro il cibo e lavarsi le mani dopo averli toccati. Il tutto nell’interesse del cane e del gatto, non perché si pensa che questi un domani possano diventare gli “untori”.
In che cosa consiste lo studio che state conducendo?
«Lo studio che stiamo conducendo mira a capire se c’è un movimento anticorpale nei cani e gatti che sono stati a contatto con persone positive Covid-19. Se questo non verrà riscontrato, così come onestamente ci aspettiamo, allora vuol dire che se l’animale è venuto a contatto con delle dosi infettanti allora l’infezione che ha subito è talmente blanda da non aver neanche coinvolto il sistema immunitario. E questo avvalorerebbe l’ipotesi che non giocano alcun ruolo attivo nella trasmissione. Però questo tipo di affermazione deve essere confermata dai numeri. Ossia dopo aver testato un adeguato numero di animali.
Per condurre questo studio abbiamo bisogno di raccogliere il siero di cani e gatti che abbiano vissuto con persone positive al Covid-19. Per questo chiediamo la collaborazione di veterinari e laboratori diagnostici che raccolgano questi campioni per poterli analizzare. Questi operatori possono trovare maggiori informazioni contattando la Dott.ssa Colitti (barbara.colitti@unito.it).
di Fulvio Cerutti
(Fonte LA STAMPA)
2 aprile 2020