Nonostante le radiazioni, numerosi animali e piante oggi vivono all’interno della zona di alienazione a Chernobyl. Mammiferi come cervi, linci e lupi, per esempio, sembrano aver riconquistato la zona. Vediamo quali specie ci abitano e che impatto ha avuto l’incidente su flora e fauna.
Nel 1986, in seguito all’incidente della centrale di Chernobyl e all’impossibilità di controllare la situazione, la città di Prip”jat’ e una “zona di alienazione” nel raggio di 30 km dalla centrale sono state evacuate dalle autorità. Tutti i cittadini furono trasferiti, gli animali randagi della città abbattuti per evitare che si dirigessero verso le zone più distanti portando con se materiale radioattivo. Da allora la presenza umana nella zona è rimasta minima, a causa del pericolo dato dai materiali radioattivi (soprattutto da cesio-137 e stronzio-90) accumulatisi nel suolo in seguito alla distruzione del reattore n°4. Negli anni però, i randagi sfuggiti al controllo e gli animali selvatici hanno ripopolato l’area e sembrano apparentemente prosperare, con popolazioni di grandi mammiferi che rivaleggiano con i parchi naturali di questo angolo di Europa. Chernobyl è quindi diventata un paradiso naturale, o la flora e fauna locale risentono ancora delle conseguenze del disastro?
Il declino di flora e fauna dopo l’incidente: la “Foresta Rossa” di Chernobyl e gli insetti
Nel periodo successivo all’incidente e al conseguente spargimento di materiale radioattivo, l’impatto negativo sugli animali e sulle piante è stato inequivocabile: le vaste foreste di conifere locali hanno risentito per prime delle radiazioni, soprattutto nel caso degli alberi più vicino alla centrale che, dopo aver cambiato i colori della corteccia con sfumature rossastre, sono morti portando alla formazione della cosiddetta Foresta Rossa.
Sebbene altre specie arboree abbiano mostrato una maggior resistenza alle radiazioni, a risentire ancora oggi sono anche i microrganismi e le specie che concorrono alla decomposizione di fogliame e altra materia organica. La ridotta velocità di degradazione fa anche si che il rischio di incendi sia decisamente più alto nelle aree più radioattive, con il rischio di rilascio in atmosfera dei radionuclidi accumulati a livello del terreno.
Altri studi hanno inoltre evidenziato la sensibilità di molte specie di insetti, come i bombi e altri importanti insetti impollinatori, la cui capacità di riprodursi sembra ridursi quando esposti a concentrazioni di decine o centinaia di microgray all’ora (μGy/h), valori facilmente riscontrabili nell’area intorno alla centrale.
Il ritorno a Chernobyl dei grandi mammiferi come lupi e cervi: le ipotesi di adattamento
Ciò nonostante popolazioni di cervi, lupi selvatici, linci sembrano aver riconquistato rapidamente la zona di alienazione: come riconosciuto dall’UNEP (il programma per l’ambiente dell’ONU) ed evidenziato in molti studi, i grandi mammiferi prosperano nell’area, aiutati sicuramente da una presenza umana quasi nulla che ha reso Chernobyl una “riserva protetta involontaria”.
Valutare l‘impatto delle radiazioni su queste specie è più complesso che per la flora o la micro-fauna. Prima di tutto, gli animali di taglia medio/grande frequentano habitat molto estesi, dagli 0,6–10 km 2 dei cervi a più di 200 km 2 dei lupi, ed è quindi estremamente difficile stimare l’esposizione effettiva alle radiazioni: già all’interno dei 30 km 2 della zona di alienazione i valori possono essere molto differenti. A influire sull’esposizione è inoltre la dieta e persino l’altezza da terra dell’animale, visto che la fonte maggiore di radiazione è il suolo stesso e gli strati meno profondi: sono pochi gli studi che indicano, ad esempio, a quali altezze sono state registrate le misurazioni di radioattività, rendendo difficile confrontare tra loro i dati e applicarli sulle diverse specie studiate.
Per quanto riguarda piccoli roditori e altra fauna minuta, più “sedentaria”, alcuni studi suggeriscono dei gradi di adattamento: la popolazione locale di arvicola rossastra (o dei boschi), animale molto diffuso nell’Europa centrale, sembra mostrare livelli di anti-ossidanti più alti della media, una “risposta” che sarebbe stata selezionata nel corso di generazioni e in grado di ridurre i danni intra-cellulari.
La diffusione di queste “variazioni genetiche” è però dibattuta, così come quelle riscontrate nei cani randagi dell’area, la cui diversità rispetto alle popolazioni circostanti è almeno in parte attribuibile al ridotto numero di esemplari presenti subito dopo l’incidente e, di conseguenza, alla maggior consanguineità tra gli attuali individui.
L’incidenza dei tumori da radiazioni tra gli animali selvatici: alcuni casi dibattuti
Altrettanto dibattuti sono i dati sui tumori riscontrati tra gli animali selvatici: alcuni studi, guidati principalmente dai professori Møller e Mousseau dell’Università della Carolina del Sud, sembrano evidenziare una maggior incidenza di effetti negativi, in particolare tra gli uccelli di Chernobyl (15 individui su 1000 studiati) rispetto a quelli della popolazione di volatili danesi (0 su 35.000).
Su questi lavori però la comunità scientifica mostra scetticismo, in parte per precedenti casi di dati “distorti” da parte di Møller rivelati dalla Danish Committee on Scientific Dishonesty e in parte per le critiche portate avanti da altri studiosi, anche parte dell’entourage dello studio, come il ricercatore Sergey Gaschak del Chernobyl Center.
Altri studi hanno però evidenziato l’accumulo di danni genetici in individui esposti a livelli di radiazione tipici della zona: è il caso delle già citate arvicole rossastre, che mostrano anche aumenti di mortalità embrionale nelle generazioni successive, allevate in ambienti non contaminati.
Gli effetti sulla salute delle specie umane: dubbi e certezze sulla zona di alienazione
Se gli effetti sulla salute umana sono tragicamente noti e ampiamente studiati da decenni, non si può quindi dire lo stesso degli impatti sulla flora e fauna selvatica, anche per via della varietà di comportamenti e caratteristiche delle diverse specie che abitano la zona.
Se i dubbi sui reali effetti della contaminazione rimangono, però, c’è una lezione che possiamo trarre da decenni di studi: dove la presenza ingombrante dell’uomo viene a mancare, la natura è stata capace di trovare i suoi equilibri e riprendersi gli spazi persi, anche di fronte a condizioni difficili e che di “naturale” hanno poco.
di Luca Maria Mercurio
26 Aprile 2024
(Fonte: www.geopop.it)