Forse non tutti sanno che… C’è una legge che tutela i gatti liberi, che non sono più randagi, ma che devono essere accuditi garantendo loro una vita dignitosa a spese del Comune. Una legge che ha più di trentanni, ma che forse gli stessi sindaci non conoscono. E allora lode alle Signore dei gatti, quelle donne di cuore che si fanno carico di provvedere ai tanti gatti in libertà, nutrendoli prima di tutto, e magari con sacrifici personali. Sono le “Gattare”, ma questo appellativo suona un po’ sgarbato, perché sono la rappresentazione concreta di un rapporto tra animali e essere umani che meriterebbe di essere studiato scientificamente
I NOSTRI SINDACI quasi sicuramente lo ignorano, ma grazie alla legge 281 del 1991, i gatti liberi non sono più “randagi”, ma si possono definire come i “gatti del Sindaco”. In virtù di questa legge, infatti, toccherebbe al Sindaco insieme ai servizi veterinari delle Unità Sanitarie Locali, di occuparsi del controllo della popolazione dei gatti mediante la prevenzione, cioè la limitazione delle nascite assicurando loro una vita dignitosa. Certo i nostri “Primi Cittadini” tutti presi dai loro problemi (politici, sociali, amministrativi, di bassa cucina, eccetera, eccetera), hanno davvero poco tempo, e pochissima propensione, a fornire un piccolissimo “reddito di cittadinanza” ai felini sparsi per le città, destinati a miagolare alla luna, se non intervenissero dei veri e propri “angeli dei gatti”. Ma sì, le “Gattare”, quasi tutte donne e quasi tutte un po’ avanti con gli anni, che, attingendo alle loro pensioncine, trovano il tempo per sfamarli e per prendersi cura di questi loro piccoli amici dagli occhi gialli e verdi. E, in qualche caso, anche di un azzurro cobalto. E li conoscono ad uno ad uno i gatti del quartiere, chiamandoli per nome, preoccupandosi se qualche altro manca all’appello, prendendosi cura dei micini appena nati, in un afflato di relazioni amorevoli che intrigherebbero anche un Konrad Lorenz.
Sono sicuro, a questo punto, che lo zoologo austriaco, il padre dell’Etologia, quella branca delle scienze naturali che studia il comportamento degli animali, troverebbe lo spunto per includere nel suo famoso “Anello di Re Salomone”, anche le “Gattare” — per favore, in maiuscolo — come esempio di relazioni tra uomini e animali, da studiare e, perfino, come fece con le oche, da classificare in una didascalica tabella comportamentale. Qualche anno fa, a proposito di randagi, e del mio nomadismo, anch’esso randagio, nella terra degli Dei (Grecia e Magna Grecia, of course), conobbi nell’isola di Aracne e del Minotauro, a Creta, un signore, Takis Proestakis, il quale si era venduto persino l’auto (la Grecia, in quel periodo era stata messa alle corde da quella nefasta politica dell’austerity ad ogni costo), per sfamare, in un terreno di sua proprietà, centinaia di cani e di gatti randagi, che i loro padroni, ridotti alla canna del gas, abbandonavano un po’ dovunque. E a proposito dei gatti, Takis, a tradimento, mi citò il Neruda del «so tutto della vita, ma non riesco a decifrare il gatto; sul suo distacco, la ragione slitta, numeri d’oro stanno nei suoi occhi». In quella occasione non ho avuto i riflessi pronti (di un gatto), altrimenti gli avrei citato il filosofo e storico francese, Hippolyte Taine, e il suo, «ho molto studiato i filosofi e i gatti e ho capito che la saggezza dei gatti è infinitamente superiore…».
E, del resto, sempre a Creta, nel periodo minoico (III-IV sec. a.C), sono stati trovati a Cnosso (Arthur Evans) affreschi in cui, insieme ai tori, erano effigiati anche gatti. Non so se ci avete fatto caso, ma lo sguardo di un gatto è quanto di più misterioso ci sia. Specie quando si mette a fissare un angolo di casa, quasi a scorgere cose di un’altra dimensione, cose che per noi sono impossibili da vedere. E, del resto, forse che nell’antico Egitto il gatto non era venerato come una entità divina? Anzi, alla Dea Bastet, che poi era la personificazione del gatto, era stata dedicata perfino una città, Bubastis, che per qualche secolo, fu addirittura la capitale del Basso Egitto. Inoltre, nella terra dei faraoni, il gatto era chiamato “miù” e al femminile, “miit”, quasi a riportarne nel nome il suono del suo verso. Il miagolio, per l’appunto. In Grecia e Magna Grecia, poi, il gatto era sacro alla Dea della sapienza, ad Athena Glaucopide, ad Athena dagli occhi splendenti, cioè, proprio come quelli scintillanti dei gatti. E del fascino di questi eleganti felini, non erano immuni i poeti, che, da Baudelaire a John Keats, da Umberto Saba a Paul Verlaine, a Borges, o ad Apollinaire, hanno dedicato loro versi, se non addirittura liriche. Come questa del grande poeta lusitano Fernando Pessoa:
«Gatto/ che giochi per via, come se fosse il tuo letto,/ invidio la sorte che è tua, che neppur sorte si chiama./ Buon servo di leggi fatali/ che reggono i sassi e le genti/ hai istinti generali/ senti solo quel che senti;/ sei felice perché sei come sei,/ il tuo nulla è tutto tuo./ Io mi vedo e non mi ho/ mi conosco e non sono io».
Quindi, quando rivolgiamo lo sguardo distratto, a queste persone generose, alle “Signore dei Gatti” — il termine gattara non mi è mai piaciuto, perché sembra avere un risvolto volgarmente borgataro, in grado di svilire la loro dedizione, amore e altruismo, per questi piccoli animali —, fermiamoci, un momento e magari prendiamo parte alla loro conversazioni con i gatti. Sì, ai loro discorsi con quel soriano là, con quel siamese o quel persiano (tra i randagi ci sono anche queste razze), invitando uno a mangiare i succosi croccantini che ha comprato, a quell’altro di farsi da parte, perché ha mangiato a sufficienza, chiamando, infine, a gran voce “Minù”, per somministrarle l’antibiotico, o per mettergli le gocce di collirio sugli occhi cisposi.
«I gatti — scriveva Ernest Hemingway — dimostrano di avere un’assoluta onestà emotiva e, al contrario degli esseri umani, sono assolutamente incapaci di nascondere i loro sentimenti». Nessuna meraviglia, perciò, se qualche Primo Cittadino, magari con la fascia tricolore per farsi riconoscere, transitasse in uno di questi luoghi frequentati dai felini, e il più carismatico del gruppo, mettiamo un Don Profirio, ricordandosi di quella legge succitata, orchestrasse un coro di miagolii, per salutare, come si deve, il loro sindaco!