Non siamo i padroni della natura, l’universo va avanti anche senza di noi

La nostra idea di superiorità ci fa pensare di essere quelli che possono «salvare il mondo». Utile ridurre i gas serra, ma il mondo cambia a prescindere e in base a dinamiche su cui non abbiamo controllo

Alle radici della cultura occidentale c’è l’idea che l’uomo sia altra cosa rispetto agli animali, e che questa differenza qualitativa — l’anima secondo la Bibbia, l’intelletto secondo Aristotele — gli conferisca il diritto di disporre della natura a proprio piacimento. Nel racconto ebraico della Creazione, ripreso intatto dalla tradizione cristiana, Dio crea l’uomo «a sua immagine» e così lo benedice: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1, 28). In un passaggio successivo, Dio conduce all’uomo tutti gli animali perché possano ricevere un nome: «Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici» (Gen 2,20). «Imporre il nome» significa attribuire identità e ruolo, è una sorta di seconda creazione che sancisce lo stretto rapporto di subordinazione fra la natura e l’uomo.

Nei secoli a seguire, e di fatto fino ad oggi, così ci siamo sempre comportati: come padroni della Terra. E padroni restiamo, nella nostra mente, anche quando da sfruttatori della natura diventiamo ambientalisti convinti: il nostro compito non è più quello di servirsi della natura, ma di custodirla. Le nostre azioni possono cambiare, ma la nostra idea di noi stessi resta immutata: siamo sempre e comunque noi a comandare, è in nostro potere tanto distruggere quanto conservare ciò che ci circonda.

Quest’idea del rapporto con la natura, rigorosamente antropocentrico, è anche alla base della discussione sul cambiamento climatico che tanto infervora l’opinione pubblica occidentale. Il pensiero dominante — un pensiero ahimè pressoché unico — sostiene che la distruzione del pianeta è interamente sotto la nostra responsabilità, e dunque soltanto da noi dipende la sua salvezza. Ci rappresentiamo contemporaneamente come diavoli e come angeli, come gli autori della più spaventosa catastrofe climatica della storia della nostra civiltà e, al tempo stesso, come gli unici in grado di cambiare il corso della natura, salvandola da noi stessi.
Ma le cose non stanno affatto così. Non siamo i padroni di un bel nulla, per la buona ragione che non siamo né superiori né estranei all’ambiente che ci circonda; al contrario, siamo parte non essenziale di un sistema estremamente complesso e interconnesso, il cui funzionamento fatichiamo a capire e che sfugge quasi completamente al nostro controllo. È dura da accettare, è un colpo mortale al nostro orgoglio e alla nostra presunzione, ma la verità è che con noi o senza di noi l’universo funzionerebbe, ha funzionato e funzionerà allo stesso modo.

Questo modo – il modo in cui funziona l’universo – è il cambiamento, un cambiamento incessante. La nostra specie, del resto, è un esempio encomiabile di adattabilità: viviamo nei deserti e nelle regioni polari, a quattromila metri di altitudine e a quaranta gradi sotto zero, sotto il sole infuocato e nella notte artica. E il mondo intorno a noi è cambiato e cambia incessantemente, in forme e tempi che non sempre siamo in grado di comprendere: ai tempi di Roma imperiale, il Sahara non era un deserto ma una savana verdeggiante attraversata da fiumi impetuosi e popolata da leoni, elefanti, giraffe. In tempi più recenti, fra la metà del XIV e la metà del XIX secolo, abbiamo vissuto la cosiddetta «piccola era glaciale», con un brusco calo delle temperature e l’estensione dei ghiacciai. Nel Cinquecento Islanda e Groenlandia erano circondati dai ghiacci al punto che era impossibile arrivarvi in nave. Poi, a partire dal 1850 circa, le temperature hanno ripreso a salire e i ghiacciai a ritirarsi: il fenomeno dura tuttora e, come sappiamo, è in parte accelerato dalle emissioni nell’atmosfera terrestre di quantità crescenti di gas serra.

Ridurle è un’ottima idea, e tutti ci auguriamo che ci si riesca, ma non per questo potremo, come si usa dire oggi, «salvare il pianeta». Prima di tutto perché il riscaldamento è iniziato indipendentemente da noi ed è parte di un ciclo ininterrotto di rovesciamenti climatici che costellano la storia del pianeta da quattro miliardi e mezzo di anni; e poi – e forse soprattutto – perché il pianeta non ha alcun bisogno di essere salvato: semplicemente, da che esiste, cambia continuamente.

Se fossimo meno presuntuosi, anziché tormentarci con visioni insieme apocalittiche e salvifiche, potremmo finalmente prendere atto di essere poco più che ospiti insignificanti, anelli di una catena pressoché infinita. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per limitare i danni della nostra presenza, ma dobbiamo soprattutto convincerci che non siamo i padroni del mondo e che la natura – del tutto indifferente ai nostri pensieri e ai nostri desideri – non può essere controllata. Si può invece, e certamente si deve, ingegnarsi per sopravvivere nelle condizioni mutate: del resto, è quanto facciamo dal Paleolitico, e con indubbio successo.

di Fabrizio Rondolino

(Fonte IL CORRIERE DELLA SERA | «BONNIE&CO.»)