La protesta delle principali associazioni ambientaliste e di tutela dei consumatori: «L’etichettatura prevista da governo e Regioni prende in giro i consumatori»
Che vita vive una scrofa che passa la sua intera esistenza confinata in una gabbia poco più larga di lei, senza potersi girare, senza mai sgranchirsi le zampe e senza mai respirare l’aria al di fuori della stalla? E un piccolo maialetto a cui vengono limati i denti e tagliata la coda? Restringiamo il campo a due sole opzioni: sono vite all’insegna del benessere o della sofferenza? La risposta sembrerebbe scontata, invece non lo è. Almeno per una parte della politica. Perché anche allevamenti che mantengono i suini nelle condizioni appena descritte potrebbero in futuro piazzare sui loro prodotti una bella etichetta con la dicitura «benessere animale». Il tutto con la benedizione del governo e delle Regioni. È questa la denuncia di una coalizione che raccoglie le principali associazioni ambientaliste, animaliste e di tutela dei consumatori — Animal Law, Animal Equality, Animalisti Italiani, Ciwf Italia, Confconsumatori, Enpa, Essere Animali, Federazione nazionale Pro Natura, Greenpeace, Lav, Leidaa, Legambiente, Oipa, Lipu, The Good Lobby — che oggi si mobilita per chiedere a gran voce la revisione dei criteri che consentiranno di certificare le aziende rispettose degli animali. Tra le 11 e le 14 un tweetstorm sotto l’hashtag #BugieInEtichetta cercherà di smuovere il più possibile l’opinione pubblica e le istituzioni chiedendo un immediato cambio di marcia.
Nello schema di decreto allo studio, secondo le associazioni, non sarebbero previsti standard adeguati per definire il benessere animale, con la conseguenza che potranno definirsi animal friendly anche attività che non lo sono affatto. Ai cittadini-consumatori arriverebbe così una comunicazione fuorviante e per di più «bollinata» a livello istituzionale. Ma di cosa si tratta esattamente? L’articolo 224 bis del Decreto Rilancio istituisce il «Sistema di qualità nazionale per il benessere animale» che prevede la definizione di una serie di disciplinari per le diverse tipologie di allevamento con l’obiettivo di aumentare non solo il benessere animale ma anche la sostenibilità ambientale delle filiere produttive. È prevista, tra l’altro, l’istituzione di una etichettatura volontaria sui prodotti di origine animale realizzati con «standard superiori ai requisiti di legge». Potranno utilizzarla, in sostanza, le aziende che faranno qualcosa di più del minimo previsto dalle normative in vigore per garantire un adeguato trattamento degli animali. Ma per le associazioni animaliste l’asticella da superare per ottenere la certificazione è stata messa troppo in basso, al punto di fare rientrare tra le buone pratiche anche procedure che buone non sono per niente. Soprattutto nel caso dell’allevamento di suini.
Non si tratta soltanto di tutelare la buona fede dei consumatori — oggi la pubblicità è tutto un fiorire di green e di eco e di sostenibilità, anche se spesso si tratta solo di slogan —, ma anche di evitare che questo modus operandi possa avvantaggiare i grandi allevamenti di tipo industriale rispetto alle piccole aziende agricole. Questa certificazione «etica» garantirebbe infatti anche una priorità di accesso ai fondi Pac (la Politica comune europea, ovvero il piano UE per l’agroalimentare) e Pnrr (il famoso Recovery Fund) e potrebbero beneficiarne anche i grandi allevamenti intensivi. Per gli ambientalisti, invece, quei fondi dovrebbero essere assegnati in via prioritaria alle aziende più piccole, che sono anche le più propense ad adottare metodi di allevamento più etici sostenibili. «Una scrofa confinata in gabbia e un suino di 170 kg che vive su una superficie di 1,1 mq non sono esempi di benessere animale – scrivono le associazioni in una nota — e neppure di transizione verso una maggiore sostenibilità ambientale. Chiediamo ai ministri Speranza e Patuanelli di modificare lo schema di decreto. Certificare prodotti che arrivano da allevamenti con livelli di benessere inesistenti e che, per aspetti come il taglio della coda, operano fuori dalla legalità, è un inganno ai consumatori e un enorme danno per quelle aziende che stanno investendo per migliorare le condizioni di vita degli animali allevati».
Le associazioni fanno anche notare come la mancata adozione di criteri stringenti per definire il benessere animale sia in contraddizione con tutti i buoni propositi di transizione ecologica e sostenibilità agroalimentare richiamati nel Green Deal Europeo e nella strategia «Farm to Fork» con cui l’UE punta a rendere la produzione agricola sempre più vicina ai consumatori (dalla fattoria alla forchetta, appunto) e più attenta all’ambiente, considerato anche l’elevato impatto degli allevamenti intensivi (in Lombardia, per esempio, risultano essere la seconda causa di inquinamento da polveri, dopo il riscaldamento domestico e prima del traffico veicolare). La stessa UE prevede di introdurre norme più rigide per il rispetto dell’animal welfare e per questo ha chiesto all’Efsa, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, di analizzare le modalità di allevamento attualmente in essere per evidenziare le situazioni di rischio ed elaborare possibili correttivi. Studi specifici sono stati fatti sui conigli, sulle galline ovaiole, sui bovini e anche sui suini: un report consegnato lo scorso anno alla Commissione UE indicava almeno 30 criticità (tra le principali la mancanza di adeguata professionalità del personale addetto alla gestione degli animali e l’inadeguatezza degli spazi) e alcune possibili soluzioni.
«Certificare come benessere animale pratiche standard del tutto insufficienti — sottolineano ancora le associazioni — livella verso il basso la qualità del comparto, penalizza gli allevatori virtuosi, fa perdere un’importante occasione per rendere più sostenibile l’allevamento suinicolo italiano e non risponde alle aspettative dei cittadini in tema di benessere degli animali allevati».
di Alessandro Sala
21 Settembre 2021
(IL CORRIERE DELLA SERA | Animalia)