Il volume del critico musicale edito da Marsilio riunisce scritti, poesie e brani musicali legati al tema della fauna. «Noi e le bestie siamo fratelli, crudele chi le uccide».
C’era una volta una fastidiosissima zanzara… «Perché fastidiosissima?», salterà su Paolo Isotta. Ricominciamo. C’era una volta un coltissimo storico della musica e critico musicale di nome Paolo Isotta, famoso per l’enciclopedica erudizione e l’affilata ferocia di certe recensioni capaci di ghigliottinare anche i più venerati baritoni o tenori, che aveva una devozione meno nota: gli animali. Al punto di scrivere un dottissimo e sciccoso libro di 448 pagine, Il Canto degli animali, edito da Marsilio, dove prende la parti perfino della zanzara.
Racconta dunque, riprendendo un poemetto giovanile attribuito a Virgilio, che «un pastore s’addormenta su un prato in un assolato meriggio estivo; un orribile serpente sta per assalirlo quando una Zanzara lo punge. L’ampia descrizione del rettile anticipa forse il mostro nelle spire del quale muore Laocoonte nel Secondo Libro dell’Eneide. Così il vecchio, schiacciata la Zanzara, si risveglia e si salva. Dopo un poco gli appare l’ombra del culex: morto per salvarlo, insepolto senza onori funebri, vagherà per l’Ade senza poter condividere il destino dei giusti. Supplica così il pastore di attribuirgli tali onori». Una supplica «toccante».
Non è un’enciclopedia letteraria, artistica e musicale intorno al mondo animale, il «canto» di Isotta. Men che meno pretende d’essere esaustiva. È «un’antologia personale». Meglio: «Una silloge di meraviglie musicali, poetiche, narrative». Che trabocca di due sentimenti. Il primo è l’amore: «Ho compreso che gli animali sono nostri fratelli, una essendo la Natura e provenendo tutto dallo stesso seme. (…) simboli e nunzi di una realtà che non riusciamo da soli a percepire». Il secondo la collera contro chi li uccide e umilia: «Mi auguro di apportare anch’io, con queste pagine, una pietruzza all’edificio ch’è comune desiderio di molti: l’abolizione della caccia, in cielo, sulla terra e per mare; la chiusura, per sempre, dei luoghi di tortura degli animali, i circhi equestri, i delfinari, i giardini zoologici, i mattatoi, gli allevamenti di pollame più crudeli ancora dell’uccisione di queste bestie».
Colpa, in buona parte, della cultura biblica «dominata da feroce antropocentrismo. Quando Noè esce dall’Arca con tutti gli animali salvati dal diluvio, ecco l’annuncio divino da lui udito (Genesi, 9, 2-3): «Paura e terrore di voi siano in tutte le creature del mondo: gli uccelli che volano nel cielo e le bestie che vanno sulla terra, e i pesci del mare. Essi sono ora in vostro potere. Ogni animale che si muove e ha vita sarà il vostro cibo».
«Puah! La carne!», sbotterebbe un Tommaso Marinetti vegano. Lo scriveva già Plutarco: «Mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale l’uomo toccò per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e gridavano, si muovevano e vivevano. Come poté la vista tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì l’olfatto a sopportarne il fetore?»
È ricchissimo e affascinante, il percorso del Canto tra la pittura (che ci fa un gatto atterrito tra la Vergine e l’arcangelo nell’Annunciazione di Lorenzo Lotto?), la letteratura (il pianto dei cavalli per la morte di Patroclo nell’Iliade: «Calde lacrime cadevano al suolo / dalle palpebre loro, mentre piangevano / ripensando al loro cocchiere; s’infangava la folta criniera / riversandosi giù dal collare…») e la musica. Dove Isotta spiega ad esempio come la Leggenda di Franz Liszt ispirata a La predicazione agli uccelli di San Francesco occupi all’inizio «la zona acuta della tastiera per raffigurare — esattamente — una moltitudine di pennuti dalla quale perviene a noi un canto indistinto dato dalla somma dei singoli canti. Così quartine di biscrome si susseguono con una figurazione mista di frammenti di scala e arpeggi…».
Non mancano il citarista Arione salvato dai delfini e narrato da Ovidio («Allor — chi ’l crederebbe? — si dice che pose un delfino / sé col ricurvo dorso sotto quel peso strano. / Siede egli e tien la cetra e pel pagamento del porto / canta, e l’onde del mare addolcisce col canto») e i quattro capponi che Renzo porta all’avvocato Azzeccagarbugli facendo «balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura». E poi i «cavalli normanni» di Giovanni Pascoli che «alle lor poste / frangean la biada con rumor di croste…») e i molossi di Lucrezio aggressivi e ringhiosi ma non «quando si provano a dolcemente lambire con la lingua i loro cuccioli o li sballottano con le zampe, e assalendoli a morsi senza stringere i denti fingono teneramente d’ingoiarli». O ancora l’orchestra de Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov: «Adesso infuriava uno jazz di scimmie. Un gigantesco gorilla dalle fedine irsute dirigeva, con una tromba in mano, ballonzolando pesantemente. In una sola fila sedevano degli orangutàn che soffiavano nelle trombe luccicanti. Allegri scimpanzè con le fisarmoniche sedevano a cavalcioni sulle loro spalle».
Per non dire dell’asino crocefisso al museo del Palatino, forse una sarcastica presa in giro di chi lo pregava ma non solo: «La mitezza dell’asino fa di quest’animale, dalle straordinarie intelligenza e bontà, un simbolo del Christus patiens, del Cristo che sopporta la sofferenza per redimerci». E come dimenticare il ciuco cantato da Don Magnifico ne La Cenerentola di Rossini? «Mi sognai fra il fosco e il chiaro / un bellissimo somaro; / un somaro, ma solenne. / Quando a un tratto, oh che portento! / su le spalle a cento a cento / gli spuntarono le penne, / ed in alto, sciù, volò!».
Eppure, tra tanti geni dell’arte antica e moderna, spicca nel Canto degli animali Totò. Con Sarchiapone e Ludovico, il «dialogo fra un povero Cavallo e un Asino filosofo avviati al macello». Non sono più utili: via. Il Cavallo, che era stato splendido e coccolato da quel padrone che lo manda ora a morte, non si dà pace. Il Somaro sospira: «Sienteme buono e vide che te dico: / la bestia umana è un animale ingrato. / Mm’ he a credere… parola ’e Ludovico, / ca mm’è venuto ’o schifo d’ ’o campà. / Nuie simmo meglio ’e lloro, t’ ’o dico io: / tenimmo core ’mpietto e sentimento».