Gli alberi romani sono indissolubilmente intrecciati con la vita civile e la storia della capitale. La loro rovina pesa come un’umiliazione per tutti
S’alza il vento e Roma trema, ma di paura, di terrore addirittura: come è potuto accadere, con tutta la storia, gloriosa e miserabile, che abbiamo alle spalle? Paura del vento che soffia, di folate, refoli, spifferi? Sono gli alberi che crollano che ci rendono ansiosi e inquieti. E non una volta, per un evento cataclismatico, memorabile nella sua terrificante unicità. No: oramai a ripetizione, serialmente, senza tregua.
Arriva il vento e puntualmente ormai gli alberi vanno giù. Per incuria e abbandono, non già per il destino e per la potenza cieca della natura. Eppure gli alberi sono essi stessi Roma, ne sono parte integrante, arredo, cuore pulsante. Le loro radici affondano nell’identità romana, sono tessere imprescindibili di un paesaggio simbolico, oltre che naturale e naturalistico, un tempo vissuto con orgoglio e gratitudine. Ottorino Respighi compose addirittura un poema sinfonico, sui «pini di Roma», e Antonello Venditti, interprete di una romanità vernacolare e gorgheggiante, quei «pini di Roma» li ha onorati in una canzone che rappresenta un inno d’amore alla sua città. Roma è la metropoli che vanta la più grande estensione di verde pubblico di tutte le capitali europee. Ma i suoi parchi gemono, i suoi alberi si spezzano, i suoi giardini avvizziscono, le sue siepi, i suoi prati, i suoi fiori, tutto va in malora. E ogni albero che si schianta, è sì la ferita di quei poveri sfortunati che ci finiscono sotto, ma è la ferita di una città intera, di un simbolo, di un’identità sfregiata.
Ci sono complesse ragioni per cui un servizio giardini tra i più efficienti al mondo si è ridotto negli anni alle poche decine di addetti al giorno d’oggi. Ma l’abitudine all’abbandono, la rassegnazione al degrado, l’accettazione sgomenta della moria di alberi, tutto questo è anche un colpo inferto all’autostima oramai quasi azzerata di una città in balia, appunto, dei venti. Soffrono i platani del Lungotevere, le cui radici sono smangiucchiate dal brecciolino e dalle schegge d’asfalto lasciate lì da lavori fatti con sciatteria, come se una ditta di cialtroni lasciasse sporche le pareti di un palazzo storico ristrutturato: ma agli alberi non fanno attenzione, non li si considera un patrimonio prezioso, e si lasciano morire, tanto nessuno di questa amministrazione capitolina mostrerà il minimo interesse per lo scempio perpetrato.
C’è una piazza a Roma che si chiama Piazza della Quercia, e si chiama così perché una possente e meravigliosa quercia secolare troneggiava al centro, ma al vicino Consiglio di Stato hanno fatto sciagurati lavori di scavo per un parcheggio sotterraneo, le radici della quercia si sono seccate e quella piazza è diventata povera e triste. C’è un’altra quercia alle pendici del Gianicolo. Si chiama la «Quercia del Tasso» perché l’autore della Gerusalemme Liberata ci veniva a comporre i suoi versi, poi di quel luogo hanno fatto un magnifico anfiteatro per rappresentare Plauto con i gradoni di pietra come spalti e una vista magnifica di Roma come fondale. Si è degradato tutto, e la quercia vive solo grazie agli eroi del vicino «Bambin Gesù» che cura i bambini malati e dunque anche gli alberi malati, perché se fosse per i responsabili della città il disastro di quel luogo incantato sarebbe completo.
C’è un quartiere, lungo l’Appia, che si chiama Alberone, in onore del grande albero che si staglia sulla strada, largo, frondoso e protettivo. Una tempesta l’aveva buttato giù ma l’impegno della popolazione ha permesso di riavere un nuovo grande leccio che ha riempito il vuoto, urbanistico e affettivo insieme. Perché gli alberi romani sono indissolubilmente intrecciati con la vita civile e la storia della città, ne sono carne e sangue e anche Lucio Dalla, quando volle cantare la sua splendida Sera dei miracoli, non poteva che dire: «Si muove la città, con le piazze, i giardini e la gente nei bar». L’umanità e gli alberi insieme. Villa Ada e Villa Borghese, ma anche il parco di Tor Bella Monaca, e quello di Centocelle, mica c’è distinzione tra centro e periferie, vivono nell’incubo degli alberi che cadono, con le siepi non curate, i prati aridi, le panchine divelte. Comitati di cittadini cercano di salvare il salvabile, per buttare cartacce e sradicare le erbacce, ma per potare un albero ci vogliono i professionisti e il Comune non se ne occupa. I cittadini che vivono vicino a Villa Balestra si sono autotassati per bonificare il parco, ma non possono permettersi la vigilanza notturna che invece spetterebbe alle istituzioni, e i vandali spadroneggiano quando la città dorme, sporcano, devastano, distruggono ciò che è stato fatto di giorno.
La rovina degli alberi pesa sulla città con un’umiliazione addirittura maggiore di quella patita per l’immondizia che deborda e gli autobus che bruciano. Come se la facciata di una chiesa barocca crollasse per colpa dell’incuria: umiliante, qualcosa che suscita vergogna, pena, rabbia, smarrimento. Per la moria degli alberi è la stessa cosa e Roma, che una volta si raccoglieva in ristoranti storici che ancora fanno di nome «Carlo all’Alberata», adesso si angoscia per la perdita di quei simboli preziosi. Qualcuno ha scritto che il benessere dei cittadini aumenta e si ingentilisce con i parchi e i giardini curati e gli alberi potati e rigogliosi. Appunto, il malessere di Roma è anche il segno del contrario. Dell’abbandono che suscita sgomento. E paura. Paura del vento, nientemeno.
28 febbraio 2019
(Fonte Corriere della Sera)