La rivincita dell’individuo e la sua lotta per la libertà. Storia, eroi e affari del popolo indiano che non ha ceduto all’esercito statunitense, fino a conquistare traguardi mai raggiunti prima da nessun nativo.
di Giovanni F.Accolla
C’ è una Hollywood, a poche miglia a Nord di Miami, che in questi giorni sta facendo parlare di sé quasi quanto la sua omonima e ben più famosa città della California. Uno strabiliante palazzo a
forma di chitarra, alto quasi 140 metri – già molto ben visibile nella sua visionaria silhouette – entro l’autunno del prossimo anno verrà consegnato al pubblico. È solo la parte più rappresentativa di un
immaginifico progetto da 1,5 miliardi di dollari che, oltre all’hotel, comprende migliaia di metri quadrati per ospitare un casinò, un parco giochi, diversi ristoranti, negozi, piscine e un avveniristico
centro congressi. È l’ultimo straordinario capitolo dell’esaltante storia della tribù Seminole, oggi proprietaria degli Hard Rock Cafè di tutto il mondo e da decenni simbolo di un riscatto razziale, sociale ed economico che ha dell’incredibile. Chi si arrende è perduto, si direbbe da noi, e potrebbe davvero essere il motto dei Seminole, gli indiani d’America oggi più ricchi, ieri meno remissivi degli Stati Uniti. È l’unica
tribù, infatti, che mai si arrese né alla colonizzazione spagnola, né all’esercito statunitense fino a conquistare, nei secoli, un’autonomia e un’indipendenza probabilmente mai ottenuta da nativi di nessuna parte del mondo. Il “governo” dei Seminole, che rappresenta circa tremila cittadini, ora paga a tutti i bambini della propria tribù gli studi fino al college, ha scuole, un corpo di polizia autonomo e gode dello status di nazione sovrana nell’ambito del sistema federale americano. Membri della confederazione Creek e dei Chickasaw, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento i Seminole si stabilirono nel Sud della Florida a causa della sovrappopolazione dei propri territori originali. A queste prime comunità nomadi per necessità (“popolo in movimento”, è il significato di “seminole” in lingua creek), si integrarono successivamente tribù minori come i Miccosuke e folti gruppi di schiavi di colore fuggiti dalle piantagioni del Sud, dando vita ad una delle più combattive confederazioni indiane del Nord America.
Con l’integrazione e i matrimoni interrazziali, i Seminole crebbero demograficamente e grazie agli ex schiavi che avevano imparato a leggere e scrivere (ovviamente di nascosto) istituirono una specie di scuola all’interno della loro comunità, conquistando consapevolezza e la capacità di rapportarsi in modo quasi paritario con i rappresentanti del governo spagnolo e statunitense.
Da questa strana sommatoria di mescolanze razziali e culturali, insomma, i Seminole costruirono un’unica identità capace di dar filo da torcere a chiunque, un’identità all’interno di una società coesa di uomini liberi e assolutamente singoli nella percezione di se stessi, come spiega bene una frase di Wild Cat, un guerriero vissuto nella metà dell’Ottocento, rivolta ad un ufficiale Usa: «Parlo per me, perché io sono libero. Ciascuno di noi parla per sé. Noi siamo un coro di singole voci che offusca la vostra bugia». Ogni tentativo di colonizzare la Florida, anche in precedenza, fu costellato dagli imbarazzanti e sanguinosi insuccessi
di Juan Ponce de León, Francisco Hernández de Córdoba, Pánfilo de Narváez e Hernando De Soto. Ma per i Seminole, paradossalmente, fu proprio la guerra con gli Stati Uniti a forgiare in un’unica nazione tante tribù frammentate, a volte anche antagoniste. Ad unire – insomma – fuggiaschi e reietti di ogni genere e razza grazie alla sola, ma formidabile, “forza centripeta” del desiderio di libertà che abita il cuore di ogni singolo individuo, soprattutto se braccato. I “capi” dei Seminole erano scelti per linea ereditaria che passava attraverso il lato femminile della famiglia. Sotto questo sistema matrilineare, la successione non passava da padre in figlio, ma poteva andare a un fratello o al figlio di una sorella. Ma – di fatto – i Seminole non avevano re, né capi veri e propri, semmai sceglievano ogni volta chi li avrebbe guidati in guerra. Avevano quindi dei “generali” che discendevano da antiche famiglie Calusa o Creek e leader meticci, mulatti, neri e con loro c’erano anche alcuni bianchi, che potremmo chiamare “rinnegati”.
Tra questi, il più noto, tale William Augustus Bowles, un ex soldato anglo danese, prima attore e poi capo indiano, che capitanò la resistenza contro gli spagnoli. Alla testa di un esercito più o meno raccogliticcio e munito di tre navi, Bowles riuscì a sbaragliare gli spagnoli, per poi dichiarare guerra anche agli Stati Uniti. Dopo molti successi, morì in un’imboscata a seguito di un tradimento. Nel corso di almeno quattro guerre – durate per quasi tutto l’Ottocento – contro il governo di Washington (che in quegli anni acquistò il territorio della Florida dagli spagnoli), emergono figure di uomini straordinari a volte davvero eccentrici, spesso impavidi come solo coloro che hanno un ideale da raggiungere ad ogni costo: in questo caso, la mera sopravvivenza.
Uno dei personaggi più emblematici – Dario Fo (al quale va riconosciuto il merito di avercene parlato) lo dipinse come una specie di maschera della commedia dell’arte locale – fu un nero di nome John Horse, divenuto famoso sia perché con la sua parlantina riusciva a truffare i bianchi, fino a vendere a un generale americano per ben trenta volte le stesse due tartarughe che poi ogni sera gli rubava, tanto – e forse più realisticamente – perché andava tra gli schiavi per spronarli alla ribellione al punto di raccoglierne un gruppo di trecento e portarli in battaglia. Pare che alla testa del suo battaglione spesso mostrasse il suo deretano ai soldati bianchi per galvanizzare i suoi i quali, incredibilmente, vinsero diverse battaglie. Ma il vero monumento vivente, ancora oggi venerato dalle nuove generazioni di Seminole della Florida, è Osceola, il capo guerriero nato col nome di Billy Powell, figlio di un mercante di origine britannica e di una donna Creek con ascendenze scozzesi e irlandesi. In fuga con la madre dall’Alabama e rifugiatosi da presso i Seminole, una volta cresciuto si oppose al trasferimento della sua tribù dalla Florida – dal 1821 territorio autonomo, ma di fatto sotto il controllo degli Stati Uniti – a una riserva a Ovest del Mississippi, così si ritrovò a far guerra ai coloni statunitensi inanellando una serie impressionante di vittorie. Il 31 dicembre 1835 due colonne di soldati stavano confluendo verso il fiume Withlacoochee e da lì, riunendosi, avrebbero attaccato le posizioni Seminole. Gli esploratori lo riferirono a Osceola, che poteva disporre in tutto di circa 500 guerrieri contro i mille e passa soldati bianchi. Bisognava, dunque, attaccare prima che i militari si riunissero e, possibilmente, spezzare in due tronconi la colonna militare. Osceola fece nascondere una canoa per sei-otto uomini sulla riva del fiume Withlacoochee. Arrivate al fiume, infatti, le guide si accorsero che non era guadabile, ma scoprirono anche che c’era una canoa e che su quella, pian piano, otto alla volta, avrebbero potuto raggiungere l’altra sponda. Ben appostato, quando circa duecento soldati furono trasbordati, Osceola comandò di aprire il fuoco: un tiro al bersaglio. Una volta che i Seminole stabilirono d’aver ucciso abbastanza bianchi, tornarono a svanire nel nulla. Combattevano così, in un ambiente che favoriva al massimo l’agguato e la fuga rendendo davvero arduo ogni centimetro a chi li inseguiva. Altro che Vietnam!
Gli statunitensi erano superiori per armamento e numero, ma il valore dei guerrieri, la tenacia di tutti i membri e la capillare conoscenza delle paludi della Florida, concesse ai Seminole di resistere, seppur venendo negli anni decimati e costretti ad una vita, per dire eufemisticamente, disagiata. Dopo decenni di lotte, i circa duecento Seminole sopravvissuti furono costretti a ritirarsi nel centro più inospitale delle Everglades. Ma le guerre per la conquista della Florida costarono agli Yankee assai più dell’acquisto della stessa terra dove furono combattute.
L’autonomia dei Seminole fu di fatto riconosciuta dagli Stati Uniti d’America nel 1923 con la costituzione in riserva dei territori occupati dalla nazione. Per l’unica tribù che non si arrese all’esercito statunitense, non fu certo abbastanza: i Seminole raggiunsero nel 1957 un accordo formale con il governo degli Stati Uniti in cui fu confermata la loro sovranità sui territori tribali, venne definito un indennizzo per le terre confiscate e conferite a quelle di appartenenza lo status di notax area. La rinascita del popolo Seminole negli anni Cinquanta vede tra protagonisti una giovane donna, Mae Tiger, una meticcia con padre bianco
che scoprendo sulla sua pelle (è proprio il caso di dirlo) che i college della Florida non consentivano l’accesso ai pellirosse, si immolò in un’autentica rivoluzione culturale ed economica e diventando, in seguito, oltre che una nota pubblicista, presidente dell’auto costituito governo della Nazione Seminole. Negli anni Settanta, un altro meticcio, James Billie, tornato dal Vietnam dove aveva fatto parte delle forze speciali in una compagnia tutta di Seminole che combatteva nelle paludi, dietro le linee vietcong, diede il suo fondamentale apporto all’emancipazione del suo popolo, divenendone, nel tempo, uno dei leader indiscussi. Billie, al suo ritorno dalla guerra, trovò nei territori indiani un clima a dir poco disastroso: erano gli anni in cui tutto il Sud della Florida era angariato dalle scorribande dei narcotrafficanti colombiani e messicani, che la utilizzavano come comoda base per i loro commerci.
Il giovane marine riorganizzò la vecchia compagnia di militari con la quale aveva combattuto in Vietnam, arruolò in aggiunta qualche cacciatore esperto e, nel solo spazio di una notte, a seguito di una serie scontri violentissimi, non solo cacciò i narcotrafficanti, ma sequestrò loro armi, aerei, motoscafi, auto e blindati. Questo gruppo di “liberatori” subito dopo creò il corpo di Polizia Seminole. Lo Stato della Florida osteggiò questa organizzazione, ma a seguito di una complessa causa legale, nel 1996, proprio mentre Billie era in carica come presidente del Consiglio della tribù, dovette riconoscere ai Seminole lo status di nazione indipendente non soggetta alle leggi dello Stato. Agli inizi del nuovo secolo, gli indiani d’America sbarcarono in Gran Bretagna: sembra la storia scritta al contrario, una nemesi piena di ironia, ma è solo business. L’accordo con il quale la tribù dei Seminole della Florida acquistò dalla britannica Rank Group la catena Hard Rock Café, si suggellò con la notevole cifra di 965 milioni di dollari.
La Hard Rock Café comprende 124 locali sparsi per il mondo, quattro hotel, due hotel casinò, due strutture per concerti dal vivo e partecipazioni in altri tre hotel, e possiede la più grande collezione esistente di oggetti e strumenti musicali legati al mondo e alle star del rock. «Questo è un momento di orgoglio per la tribù dei Seminole della Florida e per tutte le tribù indiane», disse all’epoca Mitchell Cypress, capo del concilio tribale dei Seminole che, ai tempi, già gestiva quattro casinò e due hotel casinò in Florida, nonché una delle più grandi attività di bestiame dello Stato, solide aziende agricole e interessi negli agrumi con una società di trasformazione e commercializzazione di succo, oltre a supermercati e stazioni di benzina.
Oggi una chitarra alta 140 metri è solo l’ultimo strumento che accompagna l’epopea dei Seminole. Perché, recita bene un loro proverbio: «Ci vogliono mille voci per raccontare una sola storia
(Fonte ‘O – Magazine)