Dalla Namibia all’Abruzzo, la mattanza di animali selvatici ci dimostra quanto siamo incapaci

Da due territori distanti migliaia di chilometri arriva lo stesso, preoccupante messaggio: l’essere umano non ha la capacità di creare un rapporto armonico con il mondo naturale – di cui egli stesso fa parte. Il Governo della Namibia e la giunta regionale dell’Abruzzo sono stavolta protagoniste, avendo autorizzato l’uccisione di centinaia di animali selvatici, mascherando questo abominevole provvedimento da azione utile alla conservazione.
Cosa hanno in comune la Namibia e l’Abruzzo, a parte essere scrigni meravigliosi di natura? Sia il governo dello stato africano che l’amministrazione della regione più biodiversa della nostra penisola, nelle scorse settimane hanno annunciato la volontà di uccidere centinaia di animali selvatici in nome della conservazione e della convivenza con le popolazioni locali. Ma è davvero così che si fa conservazione? È davvero così che si tutela il popolo?
SICCITÀ CHE UCCIDE

Uno degli effetti del cambiamento climatico è proprio la siccità. Secondo il Rapporto Onu “Global Drought Snapshot”, rilasciato dell’occasione della COP28la siccità aggravata dal riscaldamento globale è un’emergenza senza precedenti su scala planetaria, che porta a penuria di cibo e carestia. Mentre altri effetti dei cambiamenti climatici come le ondate di caldo, gli incendi e le inondazioni spesso occupano i titoli dei giornali, la siccità è per lo più un disastro silenzioso – afferma il documento – e gli enormi impatti della siccità indotta dall’essere umano stanno appena iniziando a manifestarsi.

Lo abbiamo visto a casa nostra, in Sicilia e Sardegna, e lo sta vedendo il mondo intero. Anche la Namibia, che sta vivendo la peggiore fase di siccità da quasi un secolo: in assenza d’acqua e dell’impossibilità di coltivare, secondo l’Onu è già esaurito ormai l’84% delle riserve alimentari. Il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite aveva avvertito il mese scorso che circa 1,4 milioni di namibiani, quasi la metà della popolazione, sta vivendo una grave insicurezza alimentare, con la produzione cerealicola crollata del 53% e i livelli d’acqua delle dighe ridotti del 70% rispetto all’anno scorso. La siccità sta mietendo vittime, umane e animali.

Il Governo ha pensato di risolvere il problema imbracciando i fucili. Sono stati incaricati cacciatori professionisti per uccidere 723 animali selvatici in tutta la Namibia: 300 zebre, 83 elefanti e 30 ippopotami, 60 bufali, 50 impala, 100 gnu blu e 100 eland, per poter anche sfamare la popolazione. Secondo il governo, per il programma di soccorso sono stati abbattuti 157 animali – non è chiaro quali specie e in quale periodo – per 56875 chili di carne.

Viene da chiedersi con che controlli igienici sanitari venga macellata e mangiata questa carne di animali selvatici, il cui consumo come sappiamo è spesso causa di zoonosi pericolosissime. Forse sarebbe stato più proficuo aiutare la popolazione locale sostenendola attraverso il commercio e la redistribuzione di prodotti, fornendo beni di prima necessità, tra cui cibo controllato e a lunga conservazione. Invece no, la caccia sembra essere la soluzione più veloce da attuare, quella più a breve termine e più dannosa per ambiente, conservazione e salute della popolazione.

IL DILEMMA DELLA CACCIA PER LA CONSERVAZIONE

Molti “conservazionisti”, soprattutto africani e statunitensi, appoggiano l’idea che la caccia sia un’opera di conservazione e che per tutelare l’ambiente e le specie selvatiche ci sia bisogno di un intervento venatorio per “riequilibrare” le popolazioni e “gestire” gli animali. La classica pericolosa visione antropocentrica che vede l’essere umano – ovviamente maschio, ricco e bianco – come controllore della natura. Animali ed ecosistemi sono burattini di esseri umani che ne muovono i fili, spesso per interessi personali e quasi mai per quelli, veri, ambientali.

Ed ecco che il governo namibiano giustifica questa mattanza di animali selvatici in nome della conservazione. Il concetto in breve è: uccidiamo animali che danno fastidio all’essere umano e che sono buoni da mangiare, così la poca acqua che c’è viene divisa tra gli animali che restano. I criteri in base ai quali vengono uccisi gli animali sono poco chiari e mi viene da pensare che quelli che vengono graziati siano quelli più “instagrammabili” per i safari – ecco perché a breve uscirà un articolo su come scegliere il safari etico.

Ed eccoci, di nuovo, a sentirci Dio davanti alla natura, a interporci nei suoi equilibri, a decidere noi chi e quando deve morire, a stabilire quali animali possono sopravvivere alla siccità e quali no. Eccoci di nuovo a far finta che questa sia conservazione faunistica e aiuto alle popolazioni locali, quando a parer mio non è altro che l’ennesima manifestazione dell’interesse lobbistico dei cacciatori, che di salvaguardia e sostentamento delle persone ha ben poco.

CONVIVENZA CHE SI RISOLVE A FUCILATE

Ma non è finita qui, perché il vero problema alla base di questa mattanza di animali è soprattutto l’incapacità di convivere con la fauna selvatica. Infatti gli 83 elefanti da abbattere sono distribuiti in 29 aree comunali in tutto il Paese, mentre gli altri animali si trovano in cinque parchi nazionali: Parco Namib-Naukluft, il Parco Nazionale Mangetti, il Parco Nazionale Bwabwata, il Parco Nazionale Mudumu e il Parco Nazionale Nkasa Rupara. Gli elefanti vengono presi di mira in modo specifico soprattutto nelle aree che sono diventate soggette a conflitti tra essere umano e fauna selvatica.

Sia per la carenza di acqua e risorse, sia per la stretta vicinanza delle attività agricole con le aree abitate da fauna selvatica, ora i conflitti sono esacerbati in questa situazione climatica e ambientale che mette tutti a dura prova, animali e persone. Sia gli elefanti che gli ippopotami dipendono strettamente dai corsi d’acqua, ora secchi, che danno sostentamento anche alle milioni di persone, che ora rischiano di morire di fame, sete e malattie a causa della siccità. Così il Governo ha trovato nei fucili la soluzione a questa difficoltà nel convivere.

Vi ricorda qualcosa? Avete avuto un deja-vu dal sapore di lupi e orsi in Italia? Tornando a noi, la Namibia ha deciso di risolvere i problemi di convivenza con gli elefanti sparando in testa a questi e poi facendoli mangiare dalle popolazioni locali. Una soluzione che fa rabbrividire se pensiamo che stiamo parlando di uno dei Paesi più ricchi, avanzati e turisticamente progrediti dell’Africa.

La Namibia è custode di un numero enorme di animali selvatici, tra cui 24.000 elefanti, una delle più grandi popolazioni al mondo, che l’Ente del turismo è abilissimo a pubblicizzare nelle copertine dei suoi lodge e safari a cinque stelle da vendere ai turisti. Un po’ come il Trentino fa con gli orsi: animali utilizzati per attrarre i turisti, animali “simbolo” di città e status symbol di una vacanza “wild” che puntualmente vengono fucilati se si permettono di disturbare la quiete antropocentrica delle attività umane.

LE PAROLE DI CHI VIVE LÌ

Io abito tra i boschi piemontesi, sono spesso in Africa per lavoro ma non ci vivo. Così ho voluto chiedere il parere su questa situazione a Giulia Manzetti, fotografa coinvolta in attività e progetti dei piani One Health in Namibia. Giulia vive qui e ha a che fare con quel clima sociale e politico quotidianamente: «Purtroppo, nonostante in termini di convivenza tra fauna selvatica ed essere umano in molti paesi africani siano più avanzati di noi italiani, la gestione della conservazione e di questo rapporto pieno di interferenze umane deve ancora fare dei passi avanti», mi ha spiegato. «L’uccisione di animali per conservarne la specie di appartenenza sa molto di controsenso».

Il vero problema alla base di questa mattanza di animali è soprattutto l’incapacità di convivere con la fauna selvatica

«D’altra parte –ha aggiunto – è anche spesso pratica comune l’uccisione di leopardi o ghepardi scomodi per gli allevatori a opera di “trophy hunters”, il cui ricavato viene poi utilizzato per conservare le suddette specie. Insomma, ci sono ancora molte contraddizioni e difficoltà da superare. Certo è che la Namibia sta affrontando un anno di siccità incredibile e sia esseri umani che fauna selvatica, così come anche animali da allevamento che devono essere macellati prima del tempo, ne stanno risentendo molto».

La soluzione è trovare quella tanto difficile via della convivenza, ricordandoci sempre però che siamo noi ad aver interferito troppo, ridotto habitat, portato specie all’estinzione e continuiamo imperterriti a farlo quotidianamente. La Natura ha le sue leggi e sarà sempre in grado di regolarsi da sé, anche e soprattutto quando i tempi si fanno duri. Nascondersi però dietro all’assunto “uccido questi animali per sfamare la gente che muore di fame” è sbagliato ed è forse un po’ un modo per calmare le voci che anche a livello internazionale potrebbero alzarsi.

IL NOSTRO ABRUZZO E LA MATTANZA DI CERVI

Mi ha fatto venire la pelle d’oca leggere le parole di Giulia e pensare che questo problema di incapacità di convivere con la fauna selvatica purtroppo sia vivissimo anche in Italia, dove proprio in questi giorni l’amministrazione abruzzese di Marsilio ha emesso una delibera in cui sono stati condannati a morte 469 cervi, uno dei simboli di una regione da sempre incoronata per l’etica e la coerenza ambientale.

Eppure i cervi – che secondo la Regione sono “troppi” per i contadini – che ne se lamentano, devono essere eliminati, per giunta a pagamento. I cacciatori assegnatari dei capi da uccidere infatti dovranno pagare un “premio” per uccidere i cervi. Le tariffe variano in base all’età e al sesso degli animali abbattuti e alla provenienza del cacciatore: 50 euro per i piccoli fino a 12 mesi – ebbene sì, perché si potrà sparare anche ai cuccioli appena nati –, 100 euro per le femmine giovani e adulte, 150 euro per i maschi giovani e 250 euro per i maschi adulti. E se il cacciatore non è residente in Abruzzo, i premi aumentano fino a 600 euro per un maschio adulto. Un gran business!
UN CENSIMENTO FATTO DA… CACCIATORI

Peccato che a beneficiare di questi fondi non saranno le comunità locali, gli agricoltori o le aree protette, ma gli Ambiti Territoriali di Caccia (ATC), vale a dire organismi gestiti sostanzialmente dai cacciatori che si appropriano, traendone profitto, della fauna selvatica che dovrebbe essere patrimonio di tutti. E, guarda caso, sono sempre gli ATC ad aver svolto i monitoraggi per stabilire la densità degli animali e a organizzare gli abbattimenti. In breve: io, cacciatore, faccio i monitoraggi, scopro che ci sono troppi cervi che danno fastidio al mio amico contadino e allora metto in vendita la loro testa e i soldi me li prendo io.

Ovviamente questa delibera ha subito sollevato moltissime critiche da parte di associazioni ambientaliste, animaliste, degli stessi abruzzesi e anche di diverse fazioni politiche non prettamente green. Il che dovrebbe far pensare. “Per accontentare un piccolo gruppo di cacciatori, l’Abruzzo sembra voler rinunciare alla sua immagine di regione dove attività umane e presenza faunistica hanno raggiunto un loro equilibrio e ciò rischia di diventare un provvedimento largamente impopolare sia nel panorama abruzzese che su quello nazionale, creando un grave danno d’immagine e quindi economico”, ha affermato Riccardo Milani, regista del film Un mondo a parte, ambientato proprio tra quelle montagne abruzzesi che ha aderito alla campagna del Wwf contro gli abbattimenti.

Ad oggi la petizione contro l’uccisione dei quasi 500 cervi è stata firmata da 100 mila persone! Ma secondo Augusto De Sanctis, già componente per un decennio per le associazioni ambientaliste della consulta regionale sulla caccia, la delibera si può e si deve fermare grazie alla legge: «Esiste una possibile chiave, un argomento forte, per chiedere alla Regione Abruzzo di ritirare in auto-tutela la delibera di Giunta Regionale che apre alla caccia al cervo o per chiederne l’annullamento al TAR ed eventualmente al Consiglio di Stato: la Regione è gravemente inadempiente in relazione all’obbligatorio Piano di monitoraggio del proprio Piano faunistico venatorio approvato nel 2020», spiega De Sanctis.

«Una raccolta di dati a cui la stessa regione si era auto-vincolata nell’ambito della procedura di Valutazione Ambientale Strategica indispensabile per adattare l’attuazione del Piano stesso negli anni, caccia al cervo compresa […]. La Regione si era auto-vincolata, tra l’altro, a effettuare i censimenti a cadenza annuale per la fauna protetta o particolarmente protetta, tra cui specie che possono ovviamente risultare impattate dal prelievo del cervo, sia per disturbo diretto da parte dei cacciatori sia per la sottrazione di cibo visto che i cervi sono predati da lupo e orso bruno e le loro carcasse mangiate da specie di uccelli necrofagi».

De Sanctis conclude le sue considerazioni osservando che «se pertanto la Regione Abruzzo avesse fatto quanto dovuto nell’applicazione del Piano di monitoraggio, il prelievo al cervo sarebbe stato vietato in tali nuove aree. Invece l’inadempienza della regione sul Piano di monitoraggio fa sì che oggi rimanga un’unica area di connessione individuata».

La solita triste negligenza che trova soluzioni in fucili e sangue, facendo gli interessi delle lobby invece che dell’ambiente. E io, come sempre, mi chiedo come sia possibile rimanere seduti a guardare la fauna selvatica, patrimonio dell’intero Stato italiano, essere massacrata. E anzi, essere partecipi di questo massacro, essendo i primi ad avvicinare i cervi e alimentarli per scattare il selfie del secolo. 

Se i cervi in Abruzzo sono arrivati così in prossimità dei centri abitati la colpa non è loro, ma di chi ha fatto perdere loro la diffidenza nei confronti dell’essere umano, per averli alimentati e umanizzati. Chiediamoci quindi se questa mattanza di cervi non sia in primis da imputarsi al turista medio che ha approfittato di una Regione ricca di fauna selvatica snaturalizzando gli animali e condannandoli a morte. A eseguire la condanna, una Regione che non è più in grado di far convivere attività economiche e salvaguardia ambientale così come ci si aspetterebbe. 

10 Settembre 2024
Fonte