La storia di Hans ebbe una tale eco che ancora oggi diciamo che i cavalli sono animali particolarmente intelligenti anche come eredità di quanto accadde allora. Come si capisce nell’immagine in alto chiaramente Hans non usava i suoni per rispondere. Ma poteva utilizzare i colpi di zoccolo per rispondere ai quesiti matematici: se gli si chiedeva, per esempio, quanto fa 2 più 3 rispondeva con 5 colpetti di zoccolo su una pedana. Nel 1904 un giornalista del New York Times, Edward T. Heyn, scrisse di aver assistito a una delle dimostrazioni di Hans quando il cavallo aveva 9 anni. Secondo il reporter anche l’allora ministro dell’Istruzione prussiano Studt e il “famoso zoologo Karl Moebius” si erano mostrati stupidi dalle capacità di Hans che nella fattispecie aveva dimostrato di sapere che 5+9 fa 14 e che il 3 sta due volte nel 7. Il caso alimentò così tanto la fantasia e le aspettative dell’opinione pubblica che il ministero dell’Istruzione prussiana istituì una commissione per capire se il suo proprietario, Wilhelm von Osten, un insegnante e pedagogista in pensione che aveva dedicato 4 anni ad educare Hans con metodo e zuccherini, fosse un truffatore.
Ancora all’inizio del Novecento l’accusa di essere un imbonitore dell’opinione pubblica, soprattutto su questioni scientifiche, poteva costare la prigione con l’accusa di voler sovvertire l’ordine costituito agitando le masse. Oggi lo fanno tutti sui social network e non accade nulla, ma questo è il segno dei tempi. In ogni caso nulla portò a confermare questa ipotesi nel caso di von Osten e del cavallo Hans, il cavallo intelligente.
Non c’era difatti truffa. Eppure c’era un inganno, una sorta di rifrazione ottica collettiva, di cui erano vittime tutti, a partire dallo stesso proprietario. Hans usava quella che oggi chiameremmo «intelligenza emotiva» più che la capacità di fare di calcolo: al quinto colpo di zoccolo, o al settimo che fosse, riusciva a notare la soddisfazione di chi gli poneva la domanda e si fermava. Impercettibili e involontari segni e messaggi del viso e del corpo. A scoprirlo fu Oskar Pfungst, studente all’Istituto di Psicologia dell’Università di Berlino (intuì il sottile meccanismo per sottrazione: quando a porre le domande era qualcuno che non conosceva la risposta, l’intelligenza di Hans tracollava). Un esempio ante litteram dell’importanza dell’interdisciplinarietà.
Il caso di Hans è molto studiato e particolarmente rilevante perché mette in risalto come le aspettative di chi pone le domande possano influenzare le risposte o la percezione delle stesse. Un po’ come quando la nostra mente coglie tratti antropomorfi in una nuvola, oppure quando ci sembra che il nostro gatto o cane si comporti proprio come un essere umano, magari il proprietario.
Sempre nel 1912 anche altri due cavalli, Muhamed e Zarif, che il ricco proprietario Karl Krall a Leipzig aveva “educato” con lo stesso metodo usato da von Osten a Berlino, si mostrarono capaci di qualche calcolo sorprendente (la letteratura riporta che avrebbero risposto anche a radice quarta di 614.656… pari a 28. Un calcolo che la maggior parte degli esseri umani non si sogna nemmeno di poter fare). A dimostrazione di quanto la convinzione fosse radicata.
Cosa spiega il neologismo AIcebo?
In quel caso, sempre un anno fa, avevo anche coniato un neologismo: effetto AIcebo, accolto dal dizionario dell’Enciclopedia Treccani. Così come nell’effetto placebo le aspettative di una efficacia del farmaco possono portare alla guarigione, così la nostra ricerca di tratti di intelligenza umana nelle risposte di ChatGPT, per esempio, ci portano a cogliere indizi e prove di intelligenza nelle macchine (per chi fosse interessato copio qui un articolo sull’effetto AIcebo).
Più di recente gli animali ci hanno stupito nuovamente: i primati, in particolare gli scimpanzé con i quali condividiamo circa il 97/98% del Dna, si sono mostrati capaci di riconoscere i simboli numerici, anche se questo non vuole dire contare, con alcune capacità addirittura superiori a quelle dell’homo sapiens. In particolare su esercizi di memoria immediata e a brevissimo termine dove hanno un indice di successo del 90% molto più alto del nostro (guardate il primo minuto e mezzo di questo breve video della Bbc che mostra un famoso esperimento sul tema memoria dei numeri).
Il caso degli elefanti africani
Ma se fino ad oggi il campo da gioco era stato principalmente quello della matematica ora gli elefanti africani hanno aperto un nuovo capitolo: secondo una ricerca pubblicata da Nature durante l’estate, gli elefanti utilizzerebbero dei “nomi” per chiamare gli altri membri del proprio gruppo. Nomi veri e propri e non la sola riproduzione del suono prodotto dall’altro che sembra sia usata da specie comunque molto intelligenti come i delfini e i pappagalli (comunque curiosa: queste specie si farebbero delle imitazioni per attirare l’attenzione dell’altro).
Gli elefanti dunque si chiamerebbero con una sorta di nome proprio, grazie anche a una complessa pletora di capacità sonore che vanno dal barrito a una simil-tromba piuttosto che l’utilizzo di rombi che, essendo a bassa frequenza, sfuggono anche all’orecchio umano ma sono particolarmente capaci di trasmettersi a lunghe distanze attraverso il terreno. Usano dunque un suono univoco per comunicare. Lo studio riporta che il risultato è stato ottenuto grazie all’utilizzo di sistemi di machine learning, alla base della capacità degli algoritmi di intelligenza artificiale di analizzare grandi masse di dati e informazioni.
Chiamarsi per nome apre una serie affascinante di quesiti: riconoscere espressamente l’altro vuole dire avere consapevolezza di se stessi. Quella che chiamiamo coscienza. Inoltre la stessa conoscenza è nata dalla capacità dell’homo sapiens di dare un nome alle cose e categorizzare: rispondere alla domanda cos’è un elefante è un processo di apprendimento che permette di mostrare le capacità induttive e allo stesso tempo deduttive dell’essere umano. Di isolare quello che Platone definiva il mondo delle idee e che risiedeva nell’iperuranio.
Ma per ora sarebbe andare troppo oltre. I risultati dello studio andranno confermati, esplorati, compresi.
Il ruolo dell’AI e quello dell’osservazione umana
Basti sottolineare un particolare fondante della faccenda: è vero, come riportato nello studio, che il risultato è stato ottenuto grazie al machine learning. Ma solo parzialmente. Perché tra gli autori del paper c’è anche Joyce H. Poole, la figura chiave di questa storia. Come ha raccontato al National Geographic Poole, un biologo che ha iniziato a studiare gli elefanti africani nel 1975, tutto parte in realtà dall’osservazione umana: “Sospettavo che gli elefanti avessero un modo per indirizzare i suoni a specifici individui del gruppo”. Parte da lì il progetto di cui è stato direttore per decenni, elephantvoices.org, da cui sono state prese molte registrazioni anche di molti anni addietro per dimostrare la teoria dei “nomi”.
Insomma, come si racconta una storia è fondamentale. Altrimenti rischiamo innumerevoli casi di AIcebo che potrebbero colonizzare il nostro stesso futuro.