“Per anni mi sono occupato di animali, cosiddetti da reddito, cioè mucche e pollame, e seguivo circa 150 stalle. Posso dire che, già giovanissimo, mi ero costruito una situazione economica invidiabile, ma non ero felice. Nel profondo non sopportavo di vedere questi animali sfruttati e costretti a vivere nelle rigide condizioni a cui li condannano gli allevamenti intensivi, maltrattati e legati alla catena, e per di più sapendo che spesso il loro destino era il macello. Vedere tutta quella sofferenza mi faceva star male”.
Il salto dalle mucche ai ricci non è piccolo. Come ci sei arrivato?
“È stato tutto molto casuale. Un venerdì sera un mio collega specializzato in animali d’affezione, cioè cani e gatti, mi chiese se mi potevo occupare di un ‘paziente’ particolare e mi diede una scatola di scarpe. Dentro c’era un piccolo riccio di soli tre giorni di vita. Era una femmina di 25 grammi, tutta rosa e con gli occhi chiusi. Era la prima volta che dovevo occuparmi di un riccio. Ero completamente inesperto e spaventato e il suo pianto, con cui mi comunicava che aveva fame o freddo, mi sconvolgeva. Mi sono procurato del latte di capra e l’ho allattata ogni due ore per un mese, tenendola appoggiata nella mia mano. Ogni volta dopo essersi nutrita si addormentava e il suo musetto aveva un’espressione che a me sembrava essere un sorriso. Ed è successo qualcosa di unico, di strano. Mi sono sentito come un padre che accudisce una figlia. Un’emozione profonda che mi faceva stare bene. L’amore non ha spiegazione. L’ho chiamata Ninna. E il centro è dedicato a lei”.
Che tipo di attività si svolgono al centro?
“Il centro ospita attualmente in media più di 300 ricci. Molti di questi arrivano alla ‘Ninna’ per le conseguenze delle attività dirette dell’uomo. Vengono investiti dalle nostre auto, feriti dai decespugliatori e dai tosaerba, ustionati dagli incendi. Numerose sono, però, anche le vittime dei cambiamenti climatici: li troviamo a vagare di giorno, cosa anomala per loro che sono animali notturni; le cucciolate autunnali, dovute al prolungamento della stagione calda, non raggiungono il peso sufficiente per sopravvivere al lungo letargo; molti sono costretti a girare a sfinimento per la mancanza di prede, l’utilizzo massiccio di prodotti chimici in agricoltura, nei nostri orti e nei giardini, falcidia gli insetti. Il nostro scopo è curarli e se possibile restituire loro la libertà, ricordandoci sempre che sono animali selvatici e come tali li trattiamo in ogni momento. Quest’anno abbiamo registrato una mortalità elevatissima dovuta anche alla siccità. Per documentare quest’emergenza, abbiamo avviato una collaborazione con il dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino (DSV). Il progetto, coordinato dalla professoressa Maria Teresa Capucchio, si prefigge di studiare il profilo metabolico ematico di questi piccoli mammiferi e di indagare quali siano gli agenti infettivi e parassitari che possono essere veicolati e potenzialmente pericolosi per i ricci e l’ambiente”.
Nel documentario ti abbiamo visto emozionarti spesso parlando dei tuoi ricci. Cosa ti piace di più del tuo lavoro?
“Direi tutto, nonostante le difficoltà. I ricci mi rendono felice, dipendono da me ma anch’io dipendo da loro. Quando li curo ho la sensazione che dalla loro salvezza derivi anche la mia. Nel cambio ci ho guadagnato. I ricci mi hanno portato un’anima. Grazie a loro ho trovato la mia strada, che è una via legata ai sentimenti. Questo è stato compreso da tante persone che hanno sposato la causa dei ricci e oggi il centro cresce e riusciamo a vivere grazie alle donazioni e al volontariato. Si è creato un crocevia di cuori”.
La tua avventura con i ricci ti ha fatto scrivere quattro libri. Qual è il tuo rapporto con la scrittura?
“Anche in questo caso i libri sono arrivati quasi casualmente. In occasione del primo, 25 grammi di felicità, sono stato contattato da una casa editrice che era venuta a conoscenza delle mie attività dai social. Il libro, che racconta la storia del mio incontro con Ninna, dopo un avvio stentato, è diventato presto un best-seller tradotto in 14 lingue. È stato un tam tam incredibile e oggi il Centro deve molto a questa prima pubblicazione. Nel libro cerco di essere il più trasparente possibile e c’è tutto il mio cuore, ho dato sfogo alla mia passione. Un approccio che ho mantenuto anche in occasione del secondo, Cuore di riccio, dove racconto la storia della disabilità degli animali, nel centro ne ospitiamo più di 80, e la mia meraviglia nello scoprire la pazienza, la dolcezza che sapevano comunicare mentre li curavo. Ed è stato un insegnamento che ho fatto mio quando si ammalò mia madre. La terza pubblicazione, Ninna, il piccolo riccio con un grande cuore, invece, è nata dal desiderio di informare i più giovani sul mondo dei ricci”.
Il tuo quarto libro è diverso?
“Raccontami qualcosa di bello è la conseguenza di una forte emozione. Una notte, era nell’aprile del 2020, vedo il video di una delfina che immobile in una vasca di un delfinario di Teheran si sta lasciando morire di tristezza dopo aver perso la compagna con cui divideva la piscina. Per salvare Kasya, questo è il suo nome, ho intrapreso una vera lotta contro il tempo per trovarle una sistemazione adatta. Sono orgoglioso che un Centro per ricci sia riuscito a mettere in salvo una delfina perché ogni essere vivente merita rispetto e dobbiamo impegnarci per i più fragili e chi è in difficoltà. È il senso della vita”.
E i ricci sono animali a rischio?
“Purtroppo sì. I ricci vivono sul pianeta da circa 15 milioni di anni e vengono considerati le sentinelle dello stato di salute di un ecosistema. Per la devastazione provocata dall’uomo i ricci hanno subito un calo numerico di ben il 70% in Europa a partire dal 2000 e sono nelle liste delle specie a rischio di estinzione. Dobbiamo fare qualcosa per fermare il loro declino, altrimenti, si stima, possano estinguersi in vent’anni. Ma, osservando il tasso di crescita delle emergenze, il periodo, a mio avviso, potrebbe essere ancora drammaticamente minore: meno di dieci”.
di Marino Midena
(Fonte LA REPUBBLICA | GREEN&BLUE)
Massimo Vacchetta (foto: Esther Amrein)