L`animale spia

Il beluga di San Pietroburgo si è allontanato lasciando la sua scia di storie, identità e ricordi
Di essere una spia, non ne aveva l’aria quel beluga così amichevole. Era affamato e anche un po’ spaesato. Della spia non aveva la disinvoltura, non aveva nemmeno la discrezione.
 Ma sembrare altro, sembrare tutto fuorché una spia, è la regola aurea dello spionaggio letterario e anche cinematografico. Il beluga, il delfino bianco, che giovedì scorso si è avvicinato, accarezzando appena il fianco dell’imbarcazione, a un gruppo di pescatori norvegesi nel mare tra le isole Rolvsóya e Ingóya veniva dalla Russia. Lo denunciava la cintura che gli avvolgeva la parte superiore del corpo con la scritta “attrezzatura di San Pietroburgo”. La reazione alla notizia è stata duplice, qualcuno si è preoccupato per la sua incolumità, aveva l’atteggiamento di un animale ammaestrato e quindi incapace di sopravvivere da solo, dicono alcuni animalisti. Qualcuno, soprattutto i norvegesi, si preoccupa per quella cintura e per la domanda che si è portata dietro. E se quel beluga fosse una spia? L’episodio ha riportato alla memoria vecchi ricordi, ambizioni da Guerra fredda, quando pur di spiarsi, pur di sapere il più possibile l’uno dell’altro, Unione sovietica e Stati Uniti facevano di tutto, pensavano qualsiasi cosa, anche ad addestrare gli animali. Gli americani pensarono negli anni Sessanta che i gatti sarebbero stati dei perfetti agenti segreti, la Cia spese 14 milioni di dollari per un progetto che permettesse di mettere sul corpo dei felini dei dispositivi di ascolto, volevano che si avvicinassero ai luoghi dove operava l’intelligence russa, ma l’esperimento finì molto male: il primo gatto mandato in esplorazione venne investito di fronte all’ambasciata sovietica a Washington. Se l’uomo era inavvicinabile dall’uomo, bisognava ricorrere agli animali e i russi iniziarono ad addestrare gli animali marini. Anche i beluga, che hanno un’ottima memoria, una vista nitida, e infatti Mosca li usava soprattutto per cercare mine. Nella contesa tra Russia e Ucraina è finita anche un’ex base sovietica per l’addestramento dei delfini. La base ancora funzionante era a Sebastopoli, in Crimea e con il referendum del 2014 e l’annessione della penisola, anche i delfini e tutti gli animali sono diventati russi. Al lavoro con i mammiferi Mosca aveva deciso di rinunciare negli anni Novanta, ma in questo ritorno a occhi chiusi verso un passato che la maggior parte della Russia percepisce come grandioso, sono finiti anche gli animali, spie inconsapevoli e ammaestrate. In un rapporto del 2017 il ministero della Difesa russo, attraverso il suo canale televisivo Zvezda, aveva rivelato che la Marina stava riprendendo i lavori con balene, delfini e anche foche, sembra siano molto brave a rilevare la presenza di esplosivo sui fondali, e quando il colonnello russo Viktor Baranest è stato intervistato dalla radio Govorit Moskva ha raccontato che la Marina russa ha un programma di addestramento per mammiferi marini. Di ammali spia è pieno il mondo, i cinesi pare stiano testando i piccioni e agli animali morti per servire il proprio paese il Giappone ha dedicato il santuario di Yasukuni. Ma il mondo è anche pieno di incidenti e di sospetti infondati sugli animali. Nel 2013 l’Egitto accusò una cicogna di essere una spia, per via di un pacchetto che portava nel suo becco e di un’etichetta con la scritta in francese. L’etichetta era di una squadra di scienziati e la cicogna era davvero una cicogna, non una spia. Di quel beluga, quel delfino bianco, non sappiamo e forse non sapremo. Libero dalla cintura ha ricominciato a nuotare, lasciandosi dietro scie di sospetti, identità e ricordi immaginari di guerre fredde infinite.
DI MICOL FLAMMINI
(Fonte IL FOGLIO – 1° maggio 2019)