Una missione nell’Artico partita per cercare campioni di microplastica trova a sorpresa tubi, taniche sacchi e reti
UN OGGETTO bianco sull’acqua attira la mia attenzione mentre scatto foto ad urie e fulmari, uccelli artici che giocano incuriositi svolazzando attorno alla nave. Osservo con il teleobiettivo: è il frammento di un tubo di plastica. Lo fotografo. È il 16 luglio, sono in pieno oceano Artico, a 81° di latitudine nord, con la spedizione HighNorth18, partita dieci giorni prima da Tromsø, Norvegia. Quello che immagino essere un caso, in mezzo alla natura polare in tutta la sua straordinaria e potente bellezza, è in realtà il primo di una lunghissima serie di oggetti e frammenti di grandi dimensioni che avrò modo di osservare nei tre giorni successivi: alla fine ne documenterò 154. Siamo arrivati al limite della banchisa polare, dopo avere percorso il mare di Groenlandia a ovest delle isole Svalbard, lasciate un centinaio di chilometri a sud. Sono partito per raccogliere campioni di microplastiche e queste macro plastiche sono una sorpresa assoluta. E lo saranno anche per l’Istituto polare norvegese con cui mi confronterò qualche giorno dopo, appena tornato a Tromsø. Mai era stata documentata la presenza massiccia di oggetti o frammenti di plastica a queste latitudini. Ci sono grandi plastiche anche nel ghiaccio. Oggetti che misurano decine di centimetri, altri qualche metro. Oggetti che – certificano gli oceanografi della spedizione, anch’essi sbalorditi – la corrente ha portato fin quassù dall’Atlantico, dal mare di Barents e dal mare di Kara. Buttiamo l’immondizia in paradiso. La confezione di uno snack, una piccola tanica ormai sventrata, una fune, un tubetto, reti, sacchi e sacchetti, frammenti generici: vedo un po’ di tutto. E gli animali interagiscono con la plastica che, restando in mare, viene avvolta da microrganismi di varia natura: questi le conferiscono l’odore del cibo. Gli animali mangiano la plastica che entra così nel ciclo biologico; oppure restano imprigionati, feriti, soffocati. l 18 luglio vedo la scena più triste: un’uria di Brunnick assaggia ripetutamente una cima alla deriva. È il simbolo della mia partecipazione, per l’European Research Institute, ad HighNorth18, programma pluriennale di ricerca italiano – guidato dall’Istituto Idrografico della Marina – che dal 2017 sta sviluppando una serie di preziosissimi studi in Artico, nell’area delle Svalbard. I ricercatori di Cnr, Enea, Ogs, Cmre, Ids e Università della Sorbona si sono occupati di mappare il fondale, di raccogliere dati geofisici sulle correnti, la salinità, l’ossigeno, le temperature, la fluorescenza, ‘carote’ di sedimento dai fondali. Io ho raccolto campioni per individuare e quantificare – grazie al lavoro che ora verrà svolto dal team della professoressa Debora Fino del Politecnico di Torino – la presenza delle insidiosissime microplastiche. E ho documentato questa distesa di macro frammenti. L’obiettivo della campagna è quello di raccogliere dati in un’area straordinariamente importante per l’intero ecosistema, anche per il Mediterraneo, per la salute del Pianeta e quindi la nostra. Noi respiriamo, beviamo, mangiamo e ci curiamo grazie al mare globale, il sistema-Oceano. E l’Artico in tutto questo ha un ruolo fondamentale. Quanto ho potuto documentare a ridosso dei ghiacci, i segni della nostra quotidianità, sposta ulteriormente in alto la nostra conoscenza sul livello di gravità dell’inquinamento da plastica in mare, con conseguenze che dureranno secoli. Alle spalle abbiamo gli errori, davanti abbiamo grandi opportunità. La risposta sta a noi: con i nostri comportamenti individuali, con le scelte quali consumatori e cittadini.
di FRANCO BORGOGNO
24 agosto 2018
(Fonte La Repubblica)