Serve subito un piano

I cani randagi che assediano le città del Sud

 

MATTEO INDICE

 

In provincia di Agrigento sterminano cuccioli da giorni, mentre il parco archeologico delle mura Timoleontee (Gela) è rimasto chiuso per settimane da gennaio poiché il custode rischiava d’essere sbranato. Ad Acquaviva delle Fonti (Bari) cinque mesi fa il sindaco Davide Carlucci ha rivolto un appello all’azienda sanitaria per tamponare l’emergenza randagi, che aveva fatto barricare in casa i residenti.

Doveva cambiare tutto dal 13 marzo 2009, quando a Scicli (Ragusa) Giuseppe Brafa fu ucciso a 9 anni da un branco di cani, e invece un pezzo d’Italia è finito fuori controllo. Il randagismo al Sud, generatore di crudeltà e accanimento sugli esemplari che vagano per campi e città, foriero di pericoli per la salute e l’incolumità degli umani, è in aumento: «Nel nostro Paese – la denuncia del Sivelp, sindacato italiano veterinari – i cani randagi potrebbero essere raddoppiati nell’ultimo quinquennio», rasentando quota 700 mila con stime d’un milione fra i più pessimisti. Meno drammatica la proiezione di Ilaria Innocenti (Lega Antivivisezione): «Settecentomila è una cifra attendibile ed esiste un divario nettissimo fra Nord e Sud. Le presenze nei canili , attualmente siamo a 79 mila, sono scese del 25% su scala nazionale rispetto a dieci anni fa, ma crescono nel Mezzogiorno, Puglia, Campania e Sicilia in primis. Senza dimenticare che spesso non vengono comunicati dati con puntualità».

Perché non se ne viene a capo? «Mancano le sterilizzazioni – insiste Piera Rosati, presidente nazionale della Lega per la difesa del cane – e l’inserimento sistematico d’un microchip che permetta d’individuare la provenienza. Il risultato sono riproduzioni incontrollate (uno studio dell’americana Doris Day Animal League conferma che una femmina «vagante e non sterilizzata» sostiene due parti all’anno da otto cuccioli, ndr). E anche quando un randagio viene intercettato, resta a lungo in qualche struttura». Nonostante una legge del ’91, perfezionata nel 2004, obblighi a sterilizzare ogni animale che entra in un canile sanitario, in concreto avviene solo nel 60% dei casi, lo certifica il ministero della Salute. E nel generale calo delle adozioni (-8,5% nel 2016 rispetto al 2015) è impressionante la differenza tra Centro-Nord e Sud sulle «restituzioni» dai canili al padrone: 50% nel primo frangente, 3,5% nel secondo. In assenza di chip e prevenzione delle nascite, e con i fondi ministeriali per il contrasto all’abbandono ridotti dai 4,2 milioni del 2005 ai 297 mila euro del 2017, i Comuni s’affannano a sovvenzionare 1100 canili.

 

Sempre secondo la Lav gli enti locali spendono 100 milioni all’anno, con punte incredibili come in Puglia (65 mila euro di esborso giornaliero) o in Sicilia (37 mila, in Lombardia sono 10 mila). «Il giro d’affari è più alto – rilancia Michele Visone, presidente Assocanili -. E alcune associazioni, con fiscalità agevolata a differenza delle imprese private, lucrano sui contributi per gestire rifugi». Sul punto chiede distinguo la presidente nazionale Enpa, Carla Rocchi: «Si punisca chi è colluso con gli amministratori pubblici, s’investa nella formazione dei volontari che svolgono cruciale opera di salvataggio e assistenza. E i municipi dovrebbero spendere in convenzioni con i veterinari per la sterilizzazione di massa; ma finché non accade, i canili non si chiudono». È in questo mare di contraddizioni che il randagismo non cala. «Eppure i sindaci – chiude Manuela Giacomini, avvocato che lavora per l’internazionale Animal Welfare Fundation – dovrebbero preoccuparsene: sono i proprietari dei randagi, responsabili penalmente del loro comportamento».

 

(Fonte La Stampa)